di Filippo Caleri
Per ora è solo un fremito che corre nella schiena dei dipendenti delle società partecipate che attendono la scure della riforma Madia. Ma in attesa del decreto del ministero dell’Economia, che fisserà un tetto ai compensi di amministratori e dirigenti, anche i quadri, i funzionari e i semplici lavoratori non dormono sonni tranquilli. I lauti compensi che spesso sono stati erogati nelle società controllate direttamente o indirettamente dallo Stato e dagli enti locali hanno sempre seguito logiche più clientelari e di legame con la politica che risultati e produttività. Così in assenza di controlli stringenti le dinamiche retributive hanno seguito un’ascesa che ha tirato verso l’alto tutte le retribuzioni, non solo quelle dei vertici. Ora il tetto massimo, solo per le più grosse, sarà riportato a 240 mila euro. Un nuovo punto di riferimento che comprimerà verso il basso tutta la scala degli stipendi. Il rischio così è che, dovendo mantenere una certa proporzione tra le diverse posizioni, anche i salari dei ruoli intermedi e di quelli semplici debbano essere rivisti al ribasso. Magari dando severe sforbiciate non ai minimi contrattuali, che sono garantiti dagli accordi collettivi, ma alle indennità accessorie che spesso portano ristoro e peso anche alle buste paga più basse. Per capire quali linee detterà il ministero dell’Economia (che dovrà scrivere il decreto attuativo) non bisognerà aspettare molto.
La data, collegata alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del decreto legislativo Madia che rende efficace l’atto il 23 settembre, è il 23 ottobre. Dunque c’è ancora tempo per capire cosa accadrà. Ma con la situazione attuale di cassa del Tesoro e con la richiesta di spending review collegata alla revisione al ribasso del Pil sarà difficile immaginare una visione espansiva delle norme aggiusta stipendi. In altre parola sarà più facile togliere voci di stipendio che mantenerle nel nuovo assetto. E anche in questo caso la scure sarà probabilmente senza pietà nelle realtà aziendali pubbliche che presentano conti disastrati. Solo per il caso di Roma basta citare l’Atac, l’azienda del trasporto pubblico, oberata da un deficit spaventoso. Secondo la ratio del decreto a pagare pegno potrebbe essere non solo la struttura di vertice e i dirigenti ma l’intera pianta organica. Il tema degli stipendi degli impiegati delle società a controllo pubblico non è di facile soluzione però. Il risvolto della medaglia della razionalizzazione della scala retributiva va affrontato tenendo conto che già oggi ci sono amministratori pubblici che guadagnano meno di 100 mila euro nonostante il carico di responsabilità. Una misura che provoca demotivazione di fondo e la fuga dei migliori amministratori dalle spa pubbliche.
E il decreto che riordina gli stipendi ispirato alla logica del taglio lineare non tiene conto delle specificità di ogni posizione. Insomma il quesito è: perché una società virtuosa deve essere trattata nei compensi ai manager e dipendenti a una che ha gestito male i soldi dei contribuenti? Anche nel pubblico, infatti, ci sono isole di efficienza e managerialità che il testo normativo rischia di appiattire generando un calo fisiologico della produttività delle stesse. Non solo. Un minore stipendio, anche quando i risultati ottenuti sono buoni e creano valore a favore della collettività, affievolisce nei manager e nei dirigenti la propensione a decidere. Quale di questi infatti si prenderà il rischia di vedersi accollate responsabilità penali e amministrativa se lo stipendio viene ridotto all’osso? Non premiare chi lavora, tagliando i compensi senza fare distinzioni, rischia di ingessare ancora di più il Paese e di colpire non solo le società che debbono essere riorganizzate ma anche quelle virtuose che con la politica dei tagli indiscriminati rischiano di perdere efficienza.