di Filippo Caleri
Sono pronti anche ad azioni eclatanti. A lasciare nelle stanze dei loro ministeri la tradizionale riservatezza e a scendere in piazza. Magari con un flash mob davanti a Palazzo Chigi o con altri strumenti più “sottili” di protesta (dei quali ancora non parlano). Gli alti dirigenti della pubblica amministrazione preoccupati per gli effetti della riforma Madia, che li riduce alla stregua di semplici iscritti a un albo professionale nonostante il superamento di un concorso pubblico, alzano le barricate. Senza dare nell’occhio e con uno solo scambio di mail si sono dati appuntamento nella sala convegni della chiesa di San Salvatore in Lauro a Roma. Giovedì scorso erano una cinquantina, agguerriti. “Non era un’assemblea – confida al Tempo uno dei partecipanti – ma un’autentica riunione di coordinamento tra le diverse anime sindacali che rappresentano il mondo dei grandi dirigenti dello Stato”. Il fatto nuovo è che le norme contestate stanno producendo un fenomeno che prelude alla nascita di un’unica federazione dei vari sindacati che, finora, hanno rappresentato singolarmente le istanze dei direttori nelle contrattazioni per i rinnovi salariali. Alla riunione romana convocata dal comitato nazionale dei dirigenti pubblici per la difesa dell’articolo 97 e 98 della Costituzione, nato per contestare la riforma Madia, hanno infatti partecipato anche iscritti a sigle di organizzazioni di lavoratori del ministero degli esteri, della sanità, della funzione pubblica e dell’economia. Un universo composito unito dallo stesso fine. Insieme appunto vogliono mettere in campo azioni di contrasto alle nuove regole che, a loro avviso, depauperano e precarizzano un’intera classe di manager pubblici. Un’agitazione che, se sta passando quasi inosservata nell’opinione pubblica, sta raccogliendo sostenitori in Parlamento.
Al punto che, raccontano, Vito Crimi, senatore grillino, membro della Commissione Affari costituzionali, sia diventato ascoltando le loro motivazioni, uno sponsor convinto delle loro ragioni. “Dimostrando molta più cultura istituzionale rispetto ai rappresentanti del Partito Democratico che la riforma la difendono a oltranza” spiegano le fonti a “Il Tempo”. Il pressing sulle istituzioni sta portando però i suoi frutti. Il 7 ottobre il comitato sarà in audizione davanti alla Commissione Affari costituzionali della Camera, la prossima settimana avranno la data dell’audizione davanti alla omologa del Senato e il 10 ottobre, dopo forti insistenze, avranno un colloquio con la ministra Madia, la più rigida oppositrice a qualunque modifica della riforma che porta il suo nome. A compattare in un fronte unico i manager dello Stato sono stati anche gli esperimenti di riorganizzazione avviati in molte parti d’Italia. In Toscana ad esempio l’accorpamento delle Asl ha ridotto il loro numero, portando risparmi nei bilanci regionali, ma lasciando contemporaneamente senza incarico decine di dirigenti che sulla base delle nuove regole vedrebbero decurtato severamente il loro stipendio. Anche al ministero dello Sviluppo Economico, il responsabile del dicastero Carlo Calenda, avrebbe chiesto di avviare una riforma delle direzioni generali che ne prevede il quasi dimezzamento. I timori che questi esperimenti siano solo l’antipasto di quello che accadrà dopo l’approvazione della riforma ha fatto sciogliere ogni dubbio agli interessati. Che ora meditano appunto la creazione di una federazione di tutti i dirigenti pubblici statali e locali. Un unico corpo in grado di rappresentare gli interessi di oltre 30 mila alti rappresentanti della macchina dello Stato.
Al loro fianco si potrebbe schierare il Movimento 5 Stelle che a loro dire ha, unico, compreso il rischio di creare con la regole Madia una dirigenza di affiliati e di prescelti dal potere politico. Dunque privi di autonomia. Non solo. Le grane create dalla contestazione al decreto che cambia lo status dei direttori potrebbe arrivare fino al premier. Sotto le sue finestre a Palazzo Chigi potrebbe trovarsi un presidio di superdirigenti per una protesta spontanea sullo stile di quelle organizzate con i social dai movimenti studenteschi. Nella sua casella postale, poi, Renzi potrebbe trovare anche una diffida per comportamento antisindacale. A sentire gli interessati infatti la riforma lederebbe il principio dell’autonomia contrattuale. Il rapporto che regola il trattamento dei dipendenti della Pubblica amministrazione è stato infatti privatizzato e tutta la disciplina della dirigenza è diventata oggetto di contrattazione negoziale tra funzione pubblica e sindacati. Una spazio di autonomia che sarebbe compresso in maniera unilaterale e verticistica dal provvedimento del governo. La via d’uscita secondo gli interpellati dal Tempo c’è: “Basterebbe spostare la riforma nella delega che il governo ha chiesto al Parlamento sulla riforma del testo unico del pubblico impiego. Ci sarebbe più tempo per un confronto più sereno e per evitare strappi”. Ma i più sono scettici. I risparmi ipotizzati con la riscrittura delle regole sarebbero già stati ipotecati nella nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza. Che di risorse a disposizione sembra averne veramente poche. Così Renzi sta per compiere un altro miracolo. Portare in piazza una categoria che finora non esisteva: una maggioranza silenziosa di alti burocrati che, visto le posizioni che occupano, non mancheranno di fare molto rumore.