Turchia, le purghe nel dopo-golpe accelerano anche la fuga di cervelli

Turchia, le purghe nel dopo-golpe accelerano anche la fuga di cervelli
26 ottobre 2016

Sempre più “cervelli” in fuga dalla Turchia. Le purghe avviate da Ankara dopo il golpe fallito del 15 luglio in diversi settori pubblici e privati hanno colpito in modo massiccio anche il mondo accademico. Con il risultato di provocare un esodo di studiosi e docenti, non molto distante dalle conseguenze dei colpi di stato militari registrati nel Paese nel 1971 e nel 1980. Questa volta però non è una giunta militare a provocarlo, ma un governo civile democraticamente eletto.

MIGLIAIA DI DOCENTI UNIVERSITARI DISOCCUPATI Negli ultimi 3 mesi oltre 4.200 accademici sono stati sospesi dall’incarico, mentre più di 2.300 sono stati espulsi dalle università in cui lavoravano. Centinaia di docenti sono rimasti disoccupati a seguito della chiusura di 15 università private, legate al movimento di Fethullah Gulen, che il governo di Ankara accusa di aver organizzato il tentato golpe. Maya Arakon lavorava alla Facoltà di relazioni internazionali dell’Università Suleyman Sah, uno degli istituti chiusi dal governo turco. “Sono rimasta disoccupata e senza casa, per strada, nel giro di una notte”, spiega la docente in un’intervista alla BBC turca, specificando che la notte del tentato golpe si trovava negli Stati Uniti e che dopo quella data ha continuamente posticipato la data del rientro, per poi decidere di non partire perchè in Turchia la situazione è molto “incerta”. “Avevo immaginato che avrebbero commissariato l’università, ma chiuderla completamente mi sembra una follia. Tra chi ci è andato di mezzo ci sono persone e studenti che come me non c’entrano niente con il movimento gulenista”, aggiunge Arakon. L’accademica per il momento si guadagna da vivere facendo traduzioni e ricorda come un’altra accademica, la linguista Necmiye Alpay con la quale stava collaborando a un libro, si trovi ora agli arresti, accusata di terrorismo. Tuttavia, nonostante diversi docenti che già si trovavano all’estero nel periodo estivo “abbiano deciso di non rientrare in Turchia, una tale scelta non è alla portata di tutti”.

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DIFFICOLTÀ A LASCIARE IL PAESE A parte i problemi per l’ottenimento del visto, gli spostamenti degli accademici restano attualmente vincolati ai permessi speciali dei rettori delle università, accordati in caso di inviti ad hoc per convegni o seminari. E molte persone, accademici inclusi, si sono anche visti annullare il passaporto per diversi motivi. Seppure manchino delle statistiche sul numero dei “cervelli” che hanno lasciato la Turchia nell’ultimo anno, alcune organizzazioni come il Fondo per salvare gli studiosi, fondato dall’Istituto di educazione internazionale (IIE) a settembre riferiva di avere ricevuto 65 domande di accademici turchi che esprimevano “timore di essere perseguitati politicamente e, in alcuni casi, di essere imprigionati e di subire violenze”. Al numero di domande “senza precedenti” giunti all’organizzazione statunitense si accompagna quello delle richieste presentate presso il Consiglio per gli accademici a rischio (CARA). Anche quest’altra organizzazione britannica sottolinea come le domande dei ricercatori turchi siano passate dai 4-5 a settimana dell’anno scorso alle 15-20 dell’ultimo periodo.

INVERSIONE DI TENDENZA “Chi va all’estero partendo dalla Turchia non lo fa più per fuggire ai divieti e alle pressioni, come avveniva in passato, ma per fare investimenti ed aiutare i più deboli”, aveva scritto in un Tweet il presidente Erdogan solo tre anni fa, nel dicembre 2013, in un post diffuso da oltre 700 altri utenti. Ma già allora si segnalavano preoccupanti interferenze nel mondo del “pensiero”. Dal gennaio 2016, quando un gruppo di accademici – i cosiddetti “accademici per la pace” – ha firmato una petizione contro gli interventi armati dello stato nella Turchia sudorientale, chiedendo alle autorità di chiudere le ostilità con i separatisti curdi, gli accademici non allineati con il governo hanno iniziato a essere attaccati. E anche diversi docenti firmatari della petizione hanno perso il posto nelle epurazioni seguite dopo il golpe. Andare all’estero, in Europa o negli Stati Uniti, per studiare è sempre stata tendenza in voga in Turchia. Ma negli anni 2000, anche grazie all’apertura di diverse università private che offrivano un’offerta formativa qualificata e in lingua straniera, si era registrato un contresodo degli studiosi turchi che sceglievano di rientrare nel Paese dopo il dottorato o il periodo di ricerca all’estero, anche per le condizioni economiche e sociali promettenti che si prospettavano per loro, con un governo riformista che compiva passi decisi verso l’integrazione europea. Programmi specifici implementati dal centro di ricerca nazionale turca, la TUBITAK, avevano portato circa 600 ricercatori a fare ritorno in Turchia negli ultimi 9 anni.

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ACCADEMICI TURCHI IN FUGA: UNA “MIGRAZIONE PARZIALE” “Parlare di fuga di cervelli è fuorviante” afferma Asli Vatansever, un’altra ex docente intervistata dalla BBC turca, che ora lavora a Berlino, presso il Centro di studi orientali moderni. “Gli accademici turchi sono stati costretti a lasciare la Turchia o hanno capito che non avrebbero più potuto continuare a lavorare all’università”, afferma la ricercatrice. “Siamo cioè persone che erano a metà della carriera e che volevano essere in qualche modo utili al proprio paese”, aggiunge, definendo la propria condizione una “migrazione parziale”. “Ci siamo ritrovati a distruggere tutto quello che avevamo costruito e ora cerchiamo di mettere in piedi una nuova vita in un Paese all’estero per tre, cinque mesi o un anno. È una situazione da nomadi. Io personalmente non so in quale parte del mondo andrò e nemmeno cosa farò”, chiosa.

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