Bruxelles pronta a negoziare su Brexit se Londra si decide. L’ironia di Donald Tusk

Bruxelles pronta a negoziare su Brexit se Londra si decide. L’ironia di Donald Tusk
9 giugno 2017

“Non sappiamo quando i negoziati sulla Brexit cominceranno, ma sappiamo quando devono finire. Fate del vostro meglio per evitare che alla fine ci sia un ‘non accordo’ come risultato di un ‘non negoziato'”. Eloquente e ironico, è il tweet con cui stamattina il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, ha commentato il risultato delle elezioni politiche nel Regno Unito, rivolgendosi genericamente ai britannici con quel “fate del vostro meglio”, e con quel riferimento al “non accordo”, che la premier Theresa May aveva sempre detto, finora, di preferire a un eventuale “cattivo accordo”, per dimostrare quanto è dura e intransigente come negoziatrice (“a bloody difficult woman”). Da qualche mese, soprattutto dopo che il governo del suo paese, la Polonia, aveva cercato invano di sfiduciarlo, Tusk esprime meglio di chiunque altro, con frasi brevi e dense come aforismi e lontane dal paludato linguaggio diplomatico, il “feeling” generale dell’Unione europea di fronte alle molte crisi che deve affrontare, a cominciare dal divorzio da Londra. Più tardi, nel pomeriggio, Tusk è stato tra i primi a inviare una lettera di congratulazioni alla May per il reincarico ottenuto dalla regina per la formazione del nuovo governo britannico. “Ora la nostra responsabilità condivisa, il nostro compito urgente – ha sottolineato nella lettera – è condurre i negoziati sul ritiro del Regno Unito dall’Unione Europea nello spirito migliore possibile, assicurando il risultato meno destabilizzante per i nostri cittadini, per le nostre imprese e per i nostri paesi dopo il mese di marzo 2019”, cioè alla scadenza dei due anni, fissata, secondo l’articolo 50 del Trattato Ue, per la conclusione dei negoziati di divorzio.

“La cornice temporale fissata dall’articolo 50 del Trattato non ci lascia tempo da perdere. Mi impegno pienamente – ha assicurato il presidente del Consiglio europeo – a mantenere contatti regolari e stretti al nostro livello per facilitare il lavoro dei nostri negoziatori”. “Spero che non ci siano ulteriori ritardi nei negoziati”, ha detto, da parte sua, il presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, parlando in una conferenza stampa stamattina a Praga. “Spero che i risultati elettorali non abbiano grande impatto su questo negoziato, che stiamo aspettando disperatamente”, ha aggiunto, osservando poi che “tutte le elezioni sono importanti, non solo quelle nei cosiddetti grandi Stati membri; ma quelle di ieri erano di particolare importanza. Spero davvero – ha concluso Juncker – che il Regno Unito sia pronto ad aprire i negoziati: per quanto riguarda la Commissione possiamo iniziare domattina alle 9.30: aspettiamo visite da Londra”. A Bruxelles, in effetti, tutto era pronto per accogliere i negoziatori britannici ed entrare con loro nel vivo delle discussioni già in queste settimane. Prima del voto di ieri, il capo negoziatore per l’Ue, Michel Barnier, aveva già previsto un’agenda, mai confermata da Londra, che prevedeva un primo incontro formale dei due team negoziali il 19 giugno. L’incontro sarebbe stato preceduto da uno scambio informale, e accompagnato dalla pubblicazione, già la settimana prossima, della posizione negoziale dell’Ue sul dossier più delicato e controverso, quello dell’accordo finanziario. La Commissione ha infatti già pronto nel cassetto il conto che secondo i Ventisette Londra dovrà pagare per poter lasciare l’Ue rispettando tutti i contratti che ha firmato e gli impegni finanziari che ha preso. Una cosa che fa imbestialire gli “hard brexiter”, convinti di poter andarsene a loro piacimento senza dover nulla a nessuno.

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Non è chiaro se ora si potrà rispettare la tabella di marcia di Barnier, e, nonostante la rapidità con cui Theresa May ha avuto il reincarico, è lecito dubitare che si riesca davvero a cominciare i negoziati così in fretta. Se il governo di Londra fosse costretto a rivedere le proprie posizioni su questo o quel punto, e per esempio esplorare la strada di una Brexit più “soft”, è prevedibile che passi almeno l’estate prima che le trattative entrino nel merito. Insomma, non solo non si sa ancora quando si potrà cominciare seriamente a negoziare, ma, si lamenta nei corridoi della Commissione e del Consiglio Ue, nessuno sa neanche che cosa vogliano davvero i britannici, e sembrano non saperlo neanche loro stessi. Non potrebbe essere più netto, a Bruxelles, il senso di rivincita, quasi un contrappasso dantesco, nei confronti degli inglesi, sempre così duri e sarcastici nel denunciare le lungaggini burocratiche, i bizantinismi, la complessità e l’inefficacia dei meccanismi decisionali dell’Ue. Fin dall’inizio di questa vicenda, mentre i Ventisette e le istituzioni europee hanno risposto con prontezza, in modo ordinato e ben organizzato e con sorprendente coesione e lucidità alla sfida della Brexit, sono i britannici che si stanno dimostrando inefficaci, indecisi, confusi, inaffidabili, in ritardo su tutto, incapaci di attuare le proprie stesse strategie. Prima la lunga attesa dell’inizio dei negoziati con i Ventisette, con la notifica formale dell’intenzione di divorzio arrivata solo a fine marzo, ben nove mesi dopo il referendum, e il complicato processo interno ai Conservatori, la resa dei conti fra le due ali dei “brexiter”, “hard” e “soft”, che ha dato temporaneamente la vittoria ai più duri. Poi la decisione inaspettata di convocare le elezioni per rafforzare, con la legittimità delle urne, la posizione negoziale di Theresa May rispetto a Bruxelles, e soprattutto rispetto ai molti avversari e critici interni al Regno Unito.

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Ieri la beffa del voto, la scommessa perduta, la legittimità compromessa. E oggi il reincarico alla May, che però dipende dall’appoggio degli Unionisti del Nord Irlanda, che sulla Brexit hanno posizioni molto più “soft” dei Conservatori; così come tutte le altre forze politiche della Camera dei Comuni, e in particolare i Laburisti di Jeremy Corbyn, che pur non arrivando primi sono i veri vincitori di queste elezioni. In fondo, è quello che ci si aspetta ora a Bruxelles: che siano ammorbidite la posizioni iniziali della May, quelle iscritte nella sua lettera di notifica del 29 marzo: Londra determinata a uscire dal mercato unico europeo e dall’Unione doganale, non disposta a pagare alcun particolare prezzo per il divorzio, presto paese terzo a tutti gli effetti in vista di un futuro accordo commerciale di libero scambio, se mai si riuscirà a negoziarlo. Oggi gli Unionisti dell’Irlanda del Nord, ad esempio, potrebbero rimettere in discussione l’uscita del Regno Unito dall’unione doganale e dal mercato unico, che rischierebbe di rimettere una “frontiera dura” ai confini con la Repubblica d’Irlanda, territorio Ue. E i numeri risicati della maggioranza su cui conta Theresa May non consigliano di perseverare sulle posizioni care agli “hard brexiter”, con Liberaldemocratici, Laburisti e Indipendentisti scozzesi pronti a bocciarle, considerando poi che anche tra i Conservatori non tutti sono diventati euroscettici convinti. L’instabilità politica in cui è entrato il Regno Unito è tale che non si esclude nemmeno l’ipotesi di nuove elezioni fra pochi mesi, magari già a ottobre, se non dovesse funzionare o dovesse durare poco il nuovo tentativo di Theresa May. A questo punto, non sarebbe da escludere, e diventerebbe anzi ragionevole, ricorrere alla possibilità di un rinvio della scadenza stabilita per la conclusione dei negoziati di divorzio (il 29 marzo 2019): l’articolo 50 del Trattato Ue consente questa decisione, se la chiede il paese che vuol lasciare l’Unione, ma a condizione che la richiesta sia accettata dagli altri Stati membri all’unanimità.

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