Rovine, rovine e ancore rovine. Edifici ridotti a cumuli di macerie e sotto ci sono i morti: combattenti dell’Isis o civili. Nessuno sa quanti siano, ma il tanfo che emanano i cadaveri in decomposizione da sotto i detriti avverte chiaramente che sono tanti, tantissimi. Lo si capisce dall’inconfondibile odore di morte e anche dalle orde di mosche presenti ovunque, su un teatro spettrale. E’ questa la scena che ci si trova davanti arrivando nel centro di Raqqa, nel Nord della Siria, de facto ex capitale dello Stato Islamico (Isis) proclamato dal “Califfo” Abu Bakr al Baghdadi da Mosul, nel Nord dell’Iraq, nell’estate del 2014. La battaglia per Raqqa, giunta alla fase finale, si consuma sullo sfondo di una partita a scacchi più ampia, destinata a disegnare il futuro politico di un Paese dilaniato da quasi sei anni e mezzo di guerra civile sfociata in un conflitto a cui partecipano Russia e Usa, potenze regionali e milizie e combattenti da tutte le parti del mondo. La battaglia di Raqqa è stata lanciata agli inizi di giugno dalle forze di Siria Democratica (SDF) un’alleanza arabo-curda sostenuta da Washington, ma dominata dalle Unità di Difesa del Popolo curdo (Ypg), considerate dalla Turchia un gruppo terroristico. E proprio tra i combattenti curdi Askanews ha trascorso due giorni dentro la città, teatro di un gioco tra gatti e topi: da una parte i curdi che occupano oltre l’80% del capoluogo; dall’altra i tagliagole che vivono sottoterra e non vedono da mesi la luce del sole per sfuggire ai droni americani che solcano il cielo in continuazione.
La fitta rete di tunnel scavati sotto terra è una sorta di ‘metropolitana’ che permette ai jihadisti di spostarsi e spuntare dietro le linee del nemico. Qui “nessun posto è sicuro. Anche sotto questa casa, in qualunque momento, potrebbe spuntare da un buco uno di loro”, dice il comandante Mazlum all’interno di una postazione di prima linea che si affaccia su Dahariya, uno degli ultimi quartieri dove si trovano gli irriducibili del Califfo. “Saranno al massimo un centinaio i combattenti di Daesh rimasti” valuta Yehia, comandante di un’altra postazione, usando l’acronimo in arabo dell’Isis. Dappertutto si vedono buste di plastica imbottite di polvere da sparo con una lunga miccia: “Servono per far saltare i tunnel. Quando troviamo una buca gettiamo una di queste bombe per chiuderla ed evitare che spunti uno di loro”, spiega Yehia, “l’altro giorno abbiamo preso uno di loro. Puzzava di brutto, erano due mesi che non si lavava”. La città è coperta da nubi formate dalla cappa di veleni sprigionati dalle bombe e dai generatori di corrente alimentati dal gasolio estratto in loco e raffinato, si fa per dire, artigianalmente. Nuvole che di notte non fanno vedere le stelle e di giorno arrivano ad oscurare il sole. L’aria è pesante, c’è un’atmosfera sospesa e come rarefatta, da ‘Day after’ nucleare.
TRA I COMBATTENTI DEL BATTAGLIONE INTERNAZIONALE Dopo il primo giorno tra i combattenti curdi sul fronte occidentale – dove per raggiungere le prime linee si usa un mezzo blindato “Made in Kobane”, ci dicono orgogliosi i curdi – il secondo giorno entriamo in città dalla parte orientale, dove gli scontri sono stati più violenti. La distruzione è totale. Nulla è rimasto in piede. La nostra guida, Cemal, propone di visitare il quartier generale del Battaglione Internazionale, una grande casa con un ampio atrio tappezzato da slogan sull’internazionale socialista e disegni di Falce e Martello. Troviamo una ventina di giovani di diverse nazionalità: americani, greci, francesi, una ragazza turca, ma anche due ragazzi italiani. Uno di loro, lombardo di 28 anni, ci accompagna al fronte. Non vogliono essere identificati o ripresi per paura di essere arrestati a ritorno in patria. “Sono qui a combattere a causa di Donald Trump”, dice John un 24enne americano venuta da Saint Louis, Missouri, che odia la politica “razzista” e “di destra” del presidente degli Stati Uniti. Il ragazzo americano, come tutti i suoi compagni, si definisce “comunista” come i combattenti dello Ypg. “Non aveva senso rimanere negli Usa dopo l’avvento di uno come Trump”, afferma. Nelle postazioni in prima linea incontriamo diversi giovani combattenti: curdi, arabi, cristiani che provengono da diverse parti del Paese. In ogni postazione ci sono almeno 10 persone che si danno il turno. Cibo e acqua arrivano dalle retrovie ogni giorno con mezzi blindati. Non lasciano mai la casa-base, dove rimangano anche tre settimane prima di avanzare in un’altra postazione. Molti di loro sono stanchi e non capiscono la lentezza con la quale arrivano gli ordini. “Ci sono le mine e i cecchini, è vero”, dice Haval un soldato con una bandana rossa in capo “ma penso che tanta lentezza sia dovuta a calcoli politici”.
L’ULTIMA BATTAGLIA: L’ATTACCO A DEIR AZZOR E mentre l’Sdf ha lanciato anche una vasta offensiva su Deir Azzor, l’ultimo bastione Isis nell’est della Siria (zona di altissima importanza strategica sia perchè è ricca di petrolio sia perchè è essenziale per il controllo del confine con l’Iraq) a Raqqa, dove i jihadisti si ritrovano rinchiusi in uno spazio inferiore al 20% della superficie della città, le operazioni procedono con grande lentezza. Tra le cause, come hanno spiegato alcuni combattenti SDF, “c’è forse la necessità di inviare più combattenti possibili al nuovo fronte di Deir Ezzor”. Non a caso l’attacco è scattato il 9 settembre, pochi giorni dopo l’avanzata delle truppe del regime del presidente Bashar al Assad che hanno rotto un lungo assedio degli uomini del Califfato. “Noi di SDF siamo gli unici ad avere un progetto politico per il futuro di una Siria federata”, ha affermato ad askanews Mustafa Bali responsabile media di SDF, precisando che “più territorio riusciamo a conquistare più probabile è che in sede di negoziati con il regime questo nostro progetto potrà avere successo”. E in una futura federazione, è il loro progetto, i curdi avrebbero il controllo del Nord siriano, del “Rojava”.