Myanmar, Suu Kyi condanna violenze ma non cita esercito. Amnesty: fa lo struzzo

19 settembre 2017

A poche ore dall’inzio della 72esima sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni unite, la leader birmana Aung San Suu Kyi e Premio Nobel per la pace- che non partecipa ai lavori a New York – ha condannato oggi “tutte le violazioni dei diritti umani” in Myanmar senza però citare in maniera specifica le violenze compiute dall’esercito ai danni della minoranza musulmana Rohingya. Una mancata assunzione di responsabilità condannata, prima e dopo il suo intervento, da alcune delle principali organizzazioni per i diritti umani. Amnesty international ha denunciato stamane “la politica dello struzzo” di San Suu Kyi dinanzi agli “orrori” nello Stato di Rakhine, nel Myanmar occidentale, mentre già ieri Human Rights Watch aveva chiesto ai leader mondiali di imporre sanzioni al Paese accusato di “pulizia etnica”. Nel suo atteso discorso odierno, San Suu Kyi ha spiegato che “non è intenzione del governo birmano attribuire colpe o evadere le proprie responsabilità”. “Siamo un Paese giovane e fragile, che ha molti problemi. Ma dobbiamo affrontarli tutti, non possiamo concentrarci solo su alcuni di essi”, ha proseguito. La leader birmana, comunque, si è detta “pronta” a organizzare il ritorno degli oltre 410.000 Rohingya rifugiatisi in Bangladesh e “profondamente desolata” per i civili “intrappolati” nella crisi. “Siamo pronti a iniziare la verifica” delle identità dei rifugiati, in vista del loro ritorno, ha detto nel palazzo del parlamento a Naypyidaw, capitale birmana, in un discorso televisivo atteso da settimane.

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“Le forze di sicurezza hanno ricevuto istruzioni” di “prendere tutte le misure per evitare danni collaterali e affinché i civili non siano feriti” durante l’operazione anti-terrorismo, ha commentato San Suu Kyi. Non vogliamo che il Myanmar sia diviso dal credo religioso”, ha insistito, in un momento in cui i rohingya sono trattati come stranieri in un Paese per il 90% buddista. Un messaggio giudicato non sufficiente da Amnesty international, che ha lamentato l’assenza di un riferimento diretto ed esplicito al ruolo dell’esercito nelle violenze nel Paese. E se l’Onu nei giorni scorsi aveva già parlato di “pulizia etnica” in Myanmar, Human Rights Watch ha rincarato la dose. “Ci sono sempre colonne di fumo che si levano dallo Stato di Rakhine”, ha detto Phil Robertson, chiedendo all’Onu di imporre sanzioni contro il Myanmar. Ieri, inoltre, anche il ministro britannico degli Affari esteri, Boris Johnson, ha ribadito la sua posizione da New York: “non possiamo assistere al ritorno di un regime militare” nel Paese. “E’ vitale dunque che Aung San Suu Kyi e il governo civile dicano chiaramente che questi abusi devono finire”. L’anno scorso, parlando all’Assemblea generale delle Nazioni unite, la leader birmana aveva promesso di difendere i diritti di questa minoranza, impegnandosi a “opporsi fermamente ai pregiudizi e all’intolleranza”.

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