Trattattiva per “schei e danee”, cosa succede con Sì a referendum

Trattattiva per “schei e danee”, cosa succede con Sì a referendum
I governatori del Veneto, Luca Zaia (sx), e della Lombardia, Roberto Maroni
21 ottobre 2017

Il giorno dopo l’eventuale vittoria del Sì ai referendum per l’autonomia della Lombardia il suo presidente Roberto Maroni, così come il collega veneto Luca Zaia, non avrà in tasca i 27 miliardi di euro che punta a gestire in casa né tantomeno le relative competenze. Le due Regioni non potranno infatti fare nulla di più che avviare un lungo percorso istituzionale fatto di consultazione degli enti locali, negoziato con il governo e successiva presentazione di un disegno di legge al Parlamento. A quel punto entrambe le Camere potranno approvarlo a maggioranza assoluta dei suoi componenti, non bastano cioè i presenti. Un percorso tutto in salita, previsto dall’articolo 116 della Costituzione, al quale Lombardia e Veneto, così come la Toscana e il Piemonte nel 2004, avevano cercato di accedere, senza successo, nel 2007. Da qui la scelta di passare per la strada dei referendum consultivi regionali, previsti dagli Statuti delle due Regioni, per chiedere ai cittadini se sono d’accordo a chiedere, nel quadro dell’unità nazionale, “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, con le relative risorse”. Uno strumento non vincolante, ma difficile da ignorare, come insegna il caso della Brexit, in caso di rilevante orientamento a favore dell’autonomia. Le materie che, in base all’articolo 117 della Costituzione, potranno eventualmente essere affidate alle Regioni sono 23, tre delle quali di legislazione esclusiva e venti concorrente.

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La Lombardia, in particolare, punta su istruzione; tutela e sicurezza del lavoro; previdenza complementare e integrativa; ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi; tutela della salute; tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali; coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario; protezione civile; governo del territorio; porti e aeroporti civili; rapporti internazionali e con l’Unione europea delle Regioni. Entrambi i presidenti leghisti vogliono però anche ottenere più ampia competenza da declinare sul proprio territorio anche in materia di sicurezza, immigrazione e ordine pubblico. Il tutto a fronte di maggiori trasferimenti da parte dello Stato. A questo punto gli stessi sostenitori dei referendum si dividono sulla valutazione degli scenari possibili. Da una parte c’è chi afferma che i vantaggi deriverebbero solo da una gestione diretta di fondi, che presumono più efficiente. In questo caso non ci sarebbero però molti margini di spesa aggiuntiva. Dall’altra parte c’è chi sostiene, come la Lega Nord, che bisogna partire dal concetto di residuo fiscale, cioè della differenza tra le tasse pagate dai cittadini di una Regione all’amministrazione centrale e quanto lo Stato restituisce loro sul territorio. Si parla in questo caso di un saldo che, in Lombardia, vale più di 50 miliardi di euro, oltre il doppio dell’attuale bilancio regionale lombardo. È il più alto tra tutte le Regioni d’Italia, seguito dall’Emilia Romagna e dal Veneto. Maroni e Zaia puntano a trattenere “almeno la metà” di questo saldo anche se l’obiettivo appare estremamente ambizioso. Vale però la pena ricordare che nel 2015 la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo l’originario quesito referendario veneto sia laddove chiedeva di esprimersi sulla possibilità di trattenere in Regione l’80% delle tasse riscosse sul territorio, sia sull’ipotetico obbligo per lo Stato centrale di reinvestire in Regione la stessa percentuale di tributi.

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