Ancora scontri a Gerusalemme, ma non si vede intifada

16 dicembre 2017

Quattro palestinesi sono stati uccisi in scontri con le forze israeliane, in una nuova giornata di mobilitazione contro il riconoscimento di Donald Trump di Gerusalemme come capitale d’Israele. Ibrahim Abu Thurayeh, 29 anni, entrambe le gambe amputate, e Yasser Sokar, 32, sono stati uccisi dai proiettili esplosi dai soldati di Tsahal nella Striscia di Gaza mentre partecipavano con altre centinaia di palestinesi a violente manifestazioni nei pressi della barriera di sicurezza di acciaio e metallo che separa l’enclave palestinese dal territorio di Israele. Mohammed Aqal, 29 anni, ha accoltellato un poliziotto israeliano all’uscita di Ramallah, in Cisgiordania, ed è stato abbattuto, ha reso noto la polizia dello Stato ebraico. Il poliziotto è stato ferito lievemente. Secondo delle foto dell’Afp, Mohammed Aqal indossava un dispositivo che assomigliava ad una cintura di esplosivi. La polizia israeliana ha fatto sapere che sta indagando per accertare se il palestinese indossava effettivamente un tale dispositivo e se quest’ultimo era autentico. Infine Bassel Ibrahim, 24 anni, è stato ucciso dal fuoco israeliano ad Anata, località fra Gerusalemme e la Cisgiordania. Le violenze innescate dalla decisione americana hanno causato la morte di otto palestinesi dal 6 dicembre. Ma i fatti non fermano Washington, che ha anzi ‘attribuito’ il “Muro del pianto” (sovrastato dalla Spianata delle Moschee) allo Stato ebraico. Dunque ancora scontri sul riconoscimento da parte di Washington di Gerusalemme come capitale di Israele in una giornata, quella di ieri, che ha visto migliaia di palestinesi protestare.

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Tuttavia ad una settimana dalla controversa decisione del presidente Donald Trump, non c’è alcun segno della terza intifada minacciata dal movimento islamico di Hamas. L’annuncio del 6 dicembre che ha rotto con decenni di politica americana con il trasferimento dell’ambasciata Usa da Tel Aviv a Gerusalemme ha suscitato un coro di condanna internazionale e proteste nei territori palestinesi e nel mondo arabo e musulmano. Finora nelle proteste sono stati uccisi quattro palestinesi e feriti oltre un migliaio, secondo il ministero della Salute palestinese. I manifestanti hanno bruciato bandiere americane e israeliane e calpestato immagini Trump. Ma le preoccupazioni che la decisione avrebbe portato a una grande ondata di spargimento di sangue non si sono finora materializzati. Ieri, giornata di preghiera collettiva del venerdì musulmano, le proteste sono riprese in diverse città in Cisgiordania ed anche nella Striscia di Gaza. Nell’enclave controllata da Hamas, dove il movimento islamico aveva indetto un’altro “Venerdì di rabbia”, le strade sono state invasa da migliaia di persone. Nella Cisgiordania occupata, alcune migliaia di persone si sono radunate nella città di Hebron a sud della città santa ma anche più a nord dove ci sono stati scontri nei pressi del campo di Arroub, a sud di Betlemme. A Gerusalemme stessa, circa 30.000 persone hanno pregato alla moschea di Al-Aqsa, il terzo sito più sacro per i musulmani, secondo l’organizzazione islamica.

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La grande maggioranza dei fedeli ha lasciato il luogo di culto senza incidenti anche se nella città vecchia di Gerusalemme sono stati registrati piccoli tafferugli. Nei pressi di Ramallah, un giovane palestinese che ha pugnalato un agente israeliano è stato gravemente ferito dal fuoco della polizia. La Turchia, che tenta di mettere il cappello sulle proteste, agira’ presso le Nazioni Unite per far annullare la decisione di Donald Trump. A darne l’annuncio questo pomeriggio e’ stato il presidente Recep Tayyip Erdogan, tornato ad attaccare la presa di posizione americana, definita “una disgrazia”. “Faremo di tutto in sede di consiglio di Sicurezza Onu e nell’Assemblea Generale per annullare questa decisione illegale, una disgrazia per l’intera regione. La Turchia fara’ tutto cio’ che e’ possibile per opporsi a chi si sente superiore alla legge”, ha detto Erdogan in video, collegato con una manifestazione filopalestinese nella citta’ centro anatolica di Konya, uno dei feudi del presidente nel centro del Paese. Oltre alle azioni da attuare in sede Onu, Erdogan ha annunciato che Ankara mettera’ presto dei fondi a disposizione dei palestinesi residenti a Gerusalemme, in modo da aiutare questi ultimi a portare avanti le proprie attivita’ e “mantenere la storica identita’ musulmana di Gerusalemme”.

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“Questi soldi serviranno a prevenire il sequestro e la confisca di beni e attivita’ commerciali dei palestinesi da parte del governo israeliano e aiutare i nostri fratelli palestinesi in ogni maniera. – ha affermato Erdogan – Siamo musulmani, non siamo mossi ne’ da razzismo ne’ da voglia di vendetta, ma solo da desiderio di giustizia”. Il presidente turco ha poi ricordato che 137 Paesi nel mondo hanno fino ad ora riconosciuto lo stato palestinese, assicurando che i musulmani “non si piegheranno dinanzi a quest’ingiustizia”. Washington, dal canto suo, continua ad accontentare Israele: “Non possiamo immaginare una situazione in cui il Muro Occidentale non sia parte di Israele”, ha sottolineato un funzionario della Casa Bianca, durante un conference call con i cronisti sul viaggio del vice presidente americano Mike Pence la prossima settimana in Medio Oriente. La Casa Bianca ha tenuto a precisare che i confini precisi saranno il risultato della fase finale dei negoziati con i palestinesi ma ha rimarcato che gli Usa “non possono immaginare che Israele sia disponibile a firmare un accordo di pace che non comprenda il Muro Occidentale”, piu’ noto come il Muro del Pianto, situato nella zona di Gerusalemme Est, che l’ex presidente Barack Obama aveva definito “illegalmente occupata”.

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