Arundhata Roy è tornata nelle librerie con il primo romanzo dopo vent’anni, dopo quel “Dio delle piccole cose” che le fece vincere il prestigioso Booker Prize in Inghilterra. La scrittrice indiana, 56 anni, non ha perso nulla del suo impegno sociale per i diseredati, le vittime del sistema della società indiana che ha denunciati in tanti saggi. Non fa eccezione il suo nuovo romanzo, “Il ministero della suprema felicità”, in Italia pubblicato da Guanda. “Non si può leggere “Il ministero della suprema felicità”, piuttosto bisogna conoscerlo, come una città, fra i viali, i vicoli, i piazzali deserti” dice. E’ un lungo viaggio attraverso l’India, dai quartieri scintillanti agli angoli della vecchia Dehli. Il personale è politico e viceversa, e per Roy non è possibile altrimenti “Non solo in India ma in tutto il mondo sta nascendo un sistema economico che crea separazioni. Io scrivo di come questo sistema sta distruggendo i vulnerabili di questo paese. Troverei molto difficile vivere in questo paese se non parlassi di quello che sta succedendo”. E fra quello che succede, in una economia sempre più brutale, ci sono le caste, e le repressioni delle manifestazioni in Kashmir, e gli sgomberi forzati dei villaggi indigeni: “Come si può sopportare che centinaia di persone vengano accecate in Kashmir? Come si può sopportare che per migliaia di anni una intera classe di persone sia considerata intoccabile? O una società che brucia gli Adivasi e li caccia dalle loro case nel nome del progresso? Non può andare avanti così. Qualcosa nascerà, o dalla distruzione totale o dalla rivoluzione ma non può andare avanti così”.