Chi l’avrebbe detto nel giorno in cui l’Ungheria celebrava i funerali solenni di Imre Nagy – il 16 giugno 1989 a 31 anni dall’esecuzione dell’icona della rivoluzione ungherese – che quel giovane oratore 26enne salito sul palco della Piazza degli Eroi di Budapest per arringare una folla eccitata parlando di libertà, a 30 anni di distanza sarebbe stato additato da molti leader ed esponenti delle liberaldemocrazie europee come un pericoloso populista che mette a rischio proprio i principi del mercato e della democrazia stessa? Come un amico della Russia? Viktor Orban è per qualcuno una contraddizione vivente: strenuo militante per la democrazia e contro Mosca (allora Unione sovietica) da ragazzo, conservatore e filorusso ora che va per i 60 anni. Di certo è una personalità politica da tenere sott’occhio. E’ il fondatore dell’Alleanza dei giovani democratici nel 1988, lo stesso partito – conosciuto con l’acronimo Fidesz – con il quale oggi si dovrebbe assicurare il terzo mandato consecutivo come primo ministro dell’Ungheria, un Paese di 10 milioni di abitanti che spesso ha fatto da apripista a profondi mutamenti in Europa. E, proprio per questo, è guardato dall’estero con preoccupazione da parte dei sostenitori del progetto europeo e con ammirazione dal fronte populista e da quello sovranista.
I sondaggi dalla parte di Orban
I sondaggi danno un certo agio alla sua corsa. L’ultima rilevazione diffusa dall’istituto Nezopont attribuisce all’alleanza Fidesz-Cristiano democratici il 43 per cento dei voti, un risultato che, se dovesse avverarsi, fornirebbe a Orban una solida maggioranza nel Parlamento magiaro, con 112-123 seggi. Molto staccato il principale avversario, che non è il centrosinistra o la sinistra, ma il partito ultranazionalista di Jobbik, con il 22 per cento (36-42 seggi). Il Partito socialista, che ha perso molta della sua forza durante questi anni di dominio di Orban, si attesterebbe sull’11 per cento (19-20 seggi). La Coalizione democratica, una formazione di centrosinistra che si è scissa dai socialisti, sarebbe all’8 per cento (11-13 seggi), come il partito di sinistra LMP che però otterrebbe (6-8 seggi) per la legge elettorale. Tutti gli altri partiti, compresa la formazione satirica dei graffitari e street artist Cane con due code (che pure otterrebbe un rimarchevole 3 per cento), dovrebbero restar fuori dal parlamento. Questa nuova vittoria di Orban preoccupa Bruxelles, i sostenitori delle liberaldemocrazie e quelli di un’Europa aperta. Eccita invece i movimenti bollati come populisti e quelli che si definiscono sovranisti. Steve Bannon, l’architetto della vittoria di Donald Trump in America, ha parlato di Orban come un “eroe”, mentre in manifestazioni dell’opposizione il premier è stato spesso indicato, con un gioco di parole sul suo nome, come “Viktator”. Il Comitato per i diritti umani dell’Onu ha pubblicato un preoccupato rapporto sull’Ungheria, descrivendo il paese come un luogo dove i discorsi d’odio sono “in voga”. Sono discorsi contro i rifugiati, contro i musulmani, contro la minoranza rom, contro gli ebrei. Un antisemitismo di fondo, secondo molti, c’è nelle iniziative legislative che sono state messe in campo contro il finanziere ungaro-americano di origini ebraiche George Soros: il cosiddetto “Pacchetto Stop-Soros”.
Gli immigrati e il filo spinato
Ma da questo orecchio Orban non ci sente: Soros è il nemico pubblico numero uno. In un’intervista pubblicata nell’ultimo numero del settimanale economico Figyelo, il primo ministro ha lanciato contro i media globali, contro l’Ue e contro “gruppi d’interesse influenti” l’accusa di aver tentato d’indirizzare il voto ungherese, facendolo perdere. L’obiettivo era quello di mettere “gente di Soros” al governo, per impossessarsi delle banche e del settore energetico magiari. Tutto ciò s’inquadra in un più ampio progetto mondialista, contro il quale Orban si considera un baluardo. E i migranti sono il cavallo di troia di quel progetto. La chiave di volta è stato il 2015, quando Orban si pose come vero contraltare alla politica della porta aperta della cancelliera tedesca Angela Merkel, rifiutando i programmi di distribuzione dei rifugiati per alleviare la crisi immigratoria. L’immigrazione per Orban è un “veleno” che minaccia la cultura e la sicurezza dell’Europa cristiana. Così, al confine con la Serbia, ha fatto costruire una barriera di filo spinato, scioccando il resto dell’Europa e ispirando Trump, il quale vorrebbe costruire un muro al confine con il Messico. In questa battaglia Orban si sente in prima linea e lo dice esplicitamente: vuole essere il modello a cui il fronte anti-migranti si potrà ispirare. “E’ nata – ha affermato, secondo quanto riporta l’agenzia di stampa Mti – una maggioranza anti-migranti non solo in Ungheria, ma anche in Europa. Il problema ora è come questa massiccia maggioranza si svilupperà in una maggioranza politica”. Il 2018, nella sua visione, è un momento cruciale. A giugno, nel Consiglio europeo, ci sarà la “battaglia chiave”, quella nella quale Bruxelles tenterà di costringere i paesi che finora non hanno accolto le politiche di ricollocazione dei profughi a farlo in maniera automatica. In questa battaglia, Orban vede come alleati non solo i partiti e i movimenti considerati populisti in Europa occidentale, ma soprattutto i paesi della Nuova Europa entrati nell’Ue nel 2014. In particolare la Polonia, ma anche gli altri due componenti del cosiddetto gruppo di Visegrad (V4): Repubblica ceca e Slovacchia.
La Russia, croce e delizia di Orban
L’altro grande alleato è Mosca, cioè Vladimir Putin. Proprio quella Russia che il giovane Orban vedeva come un’oppressiva potenza occupante. A questa conversione hanno contribuito le ricorrenti crisi del gas, che hanno visto l’Ungheria particolarmente esposta, ma anche la costruzione da parte russa dei nuovi reattori della vecchia centrale nucleare di Paks, un affare che ha portato a Budapest un prestito da 10 miliardi di euro arrivati proprio dalla Russia. Ciò, tuttavia, non ha impedito al governo di Orban di allinearsi al blocco Ue, espellendo un diplomatico russo per il caso Skripal. C’è comunque una coerenza dietro le azioni del premier ungherese. “Io penso – ha spiegato a Figyelo – a un modello ungherese basato sulla competitività, sul pieno impiego e su politiche demografiche e identitarie efficaci”. E’ un piano che ha al suo centro l’economia, probabilmente pensato mentre Budapest si trovava sotto lo schiaffo del Fondo monetario internazionale, della Banca mondiale e dell’Ue, che nel 2008 prestarono all’Ungheria 20 miliardi di euro per salvare il Paese dal default, imponendo tuttavia sacrifici pesantissimi. L’Orbanomics è fatta di tasse speciali sulle aziende straniere, nazionalizzazione dei fondi pensione privati, controllo sulle tariffe delle utilities. Tutto il contrario, insomma, di quello che l’ortodossia economica liberomercatista di questi anni stabilisce.
A guardare la crescita del Pil – +3,7% prevista per il 2018 secondo l’Ue – sembra funzionare. Ma diversi economisti sottolineano la fragilità di un sistema dov’è diffusa la corruzione, la povertà e manca la manodopera in diversi settori, sia per l’emigrazione che per le politiche anti-immigrazione orbaniane. Discussioni, queste ultime, che non sembrano troppo intaccare la popolarità del leader, il quale sta per diventare premier per la quarta volta (la terza consecutiva). Nel 2010 arrivò al potere con il due terzi dei seggio in parlamento e questo gli consentì di fare una riforma costituzionale in chiave nazionalista che ha compresso i poteri delle autorità indipendenti. Inoltre Orban s’è peritato di schiacciare, secondo molti giornalisti, i margini della libertà di stampa, con una serie di riforme viste in Europa come liberticide. Tutte mosse che gli hanno consentito di diventare un leader tanto forte quanto controverso. Chissà se il Viktor Orban del 1989 avrebbe approvato. askanews