Paolo Pellegrin è uno dei più importanti fotografi della scena internazionale, ha vinto dieci World Press Photo Award, testimoniato con i suoi reportage conflitti in Kosovo, Iraq, Libano, Palestina, trasformato in immagini emergenze umanitarie e catturato la natura con la sua potenza e la sua fragilità. Il Maxxi fino al 10 marzo ospita la mostra, “Paolo Pellegrin. Un’antologia” curata da Germano Celant, con 150 foto scattate negli ultimi 20 anni.
Una intera parete dedicata alla battaglia di Mosul apre la mostra come metafora del conflitto, una grande quadro raccoglie, come un collage, le immagini dei detenuti di Guantanamo. Tra Rochester e Miami Pellegrin ha immortalato scene di violenza, povertà, crimine, tra Lesbo, Beirut, l’Albania, ha colto la fatica o la disperazione di uomini, donne, bambini, profughi, rifugiati, migranti.
“Credo che la costante, oltre alle aree geografiche, il Medio Oriente, la Palestina, un tentativo di mettermi in rapporto con l’altro, chiunque esso sia. Al di là dell’espetto documentaristico, di informazione, di fotografia che ha un rapporto con la storia, credo, spero, io almeno ci leggo, il più delle volte, un filo di umanità”.
Nella seconda parte della mostra la luce prende il sopravvento per svelare le fotografie su vari aspetti della natura: il candore del ghiaccio dell’Antartide, protagonista di un recente reportage realizzato per la Nasa, la distruzione lasciata dallo tsunami in Giappone o Indonesia, ma anche il bagno di due giovani palestinesi nel Mar Morto.
“E’ sempre in realtà una natura ferita, o in pericolo, una natura fragile, o violenta, perché la natura è anche violenta ma anche come reazione all’uomo. Questa natura in pericolo mi sembra il grande tema delle nostre vite, della nostra esistenza, quindi se vuoi è un’altro grande, ulteriore fronte di battaglia. La mia strategie, il mio modo per raccontare questo è stato attraverso il togliere, il sottrarre e cercare di rendere la fragilità della bellezza”.