Nicola Zingaretti è già in campo da tempo, Marco Minniti ha quasi sciolto la riserva, (“al 51% mi candido”) Maurizio Martina dovrebbe farlo nei prossimi giorni. I contendenti per il congresso Pd cominciano ad essere ormai allineati ai nastri di partenza, ma a una settimana dall’assemblea che convocherà le assise del partito non tutti i giochi sono ancora fatti e tra i democratici c’è anche chi continua a sperare in una soluzione unitaria con Paolo Gentiloni.
L’ex premier, in realtà, non sembra affatto intenzionato a cedere alle pressioni dei “non allineati” che lavorano per provare ad evitare una conta dagli esiti imprevedibili, ma certo le voci che arrivano dalla convention renziana di Salsomaggiore potrebbero dare forza a chi chiede a tutti un passo indietro. Matteo Renzi parlerà domani, ma questo pomeriggio – a porte chiuse – alcuni dei suoi hanno giocato la stessa carta che usò Massimo D’Alema nel 2009 a sostegno di Pier Luigi Bersani contro Dario Franceschini, lo spettro della scissione.
Uno spettro già ampiamente materializzatosi quando Renzi ha annunciato la costituzione dei suoi “Comitati civici”, intesi da tutti come la rete di un suo possibile partito personale. A Salsomaggiore, sono stati Giuseppe Fioroni e Roberto Giachetti i più netti nell’evocare uno scenario di rottura. Per entrambi la vittoria di Zingaretti equivarrebbe alla trasformazione del Pd in Pds “e in quel caso io non resto a bombardare chi ha vinto – ha spiegato Giachetti – magari levo il disturbo”. Ancora più rude Fioroni che, secondo quanto viene riferito, avrebbe detto che “non c’è dubbio che Zingaretti voglia aggiungere la `S’ al Pd. Ma non mi appassionano le salme in avanzato stato di decomposizione come sono i socialdemocratici in Europa. Il Pd deve sapere collocarsi dalla parte di chi ha un progetto politico in Europa”.
Scenari che, ovviamente, non sono stati toccati da Renzi, che si è limitato ad una breve introduzione dei lavori nella quale ha precisato che “non c’è da difendere quello che abbiamo fatto, ma da dire cosa vogliamo fare in futuro”. Non c’è Graziano Delrio, che ovviamente è tra i renziani il meno entusiasta del sostegno a Minniti. Non c’è nemmeno Matteo Richetti, candidato a sua volta alla segreteria. Parla l’altro capogruppo, Andrea Marcucci, che pur senza nominare esplicitamente l’ex ministro dell’Interno chiede un “candidato candidato che deve conquistare la simpatia di questa area politica deve essere quel candidato che si muova in continuità con le politiche che il Pd ha portato avanti nella precedente legislatura”. Il capogruppo al Senato ha anche polemizzato con “alcune revisioni” degli ultimi anni del Pd “anche da parte di chi in questi anni è stato al governo”. Revisioni che “sono poco credibili e non ne abbiamo bisogno”.
E’ stato Emanuele Fiano a invocare esplicitamente la candidatura di Minniti, anche se già si era diffusa la notizia che l’ex ministro domani probabilmente diserterà la riunione, contrariamente a quanto si era detto nei giorni scorsi. In generale, oltre a Delrio, sono diversi i renziani che nutrono dubbi su Minniti, un candidato che viene dal Pds e che anche ha ribadito l’amicizia con Massimo D’Alema “anche se abbiamo idee politiche diverse”. Si parla di Ettore Rosato coordinatore della mozione per Minniti e Luca Lotti a gestire la composizione delle liste per il congresso, ma questo non basta a placare i dubbi. Proprio Delrio, insieme a Matteo Orfini, è invece tra gli sponsor della candidatura di Martina, che dovrebbe essere ufficializzata nei prossimi giorni.
Uno scenario balcanizzato, secondo alcuni anche per precisa strategia di Renzi che avrebbe voluto rinviare il congresso e che, a questo punto, vuole stoppare Zingarette e non vedrebbe male un segretario eletto non con il plebiscito delle primarie ma costretto ad un accordo in assemblea. Una soluzione che limiterebbe i danni, se fosse comunque il governatore del Lazio ad arrivare primo (ma sotto il 50%) alle primarie, perché di fatto diventerebbe un segretario frutto di un’intesa con il secondo arrivato, comunque un nome vicino ai renziani.
Ma anche se fosse Minniti ad arrivare primo, la mancata vittoria alle primarie e l’investitura in assemblea rafforzerebbe gli “azionisti” di maggioranza, ovvero appunto i renziani. Per questo c’è ancora chi non si rassegna e prova a convincere Gentiloni. L’ex premier come candidato unitario, secondo i “non allineati”, permetterebbe una tregua tra le correnti evitando a tutti un salto nel buio. Peccato che al momento il diretto interessato continui a chiamarsi fuori.