Rappresentazioni di memoria emotiva, o engrammi (cioè tracce di memoria immagazzinate nel cervello) come la paura, sono fondamentali per la sopravvivenza: consentono infatti sia agli animali che all’uomo di percepire, valutare e rispondere alle situazioni pericolose in modo appropriato. È opinione corrente che queste tracce di memoria si formino e si preservino in nuclei cerebrali superiori, mentre oggi prende forma l’ipotesi che nella formazione della memoria siano coinvolte anche strutture ‘antiche’ e altamente conservate nell’evoluzione del cervello, come l’ipotalamo. Lo dimostra lo studio pubblicato su Neuron da un team di ricerca internazionale (che riunisce Spagna, Germania, Francia e Italia) e interdisciplinare guidato dal Prof. Mazahir T. Hasan, membro della fondazione scientifica basca Ikerbasque, e a cui ha partecipato tra gli altri Ilaria Bertocchi, ricercatrice del NICO, Neuroscience Institute Cavalieri Ottolenghi – Università di Torino.
Questa scoperta può rappresentare una svolta nelle neuroscienze: implica infatti uno scostamento dal dogma principale che sostiene come la memoria associata a un contesto si formi principalmente nell’ippocampo, per essere poi ‘trasferita’ e immagazzinata nella corteccia. Una visione – spiega l’università di Torino – che sottovaluta l’importanza di altre strutture cerebrali più antiche dal punto di vista evolutivo, come l’ipotalamo, anch’esso capace di riorganizzare in modo dinamico i propri circuiti per consentire la formazione e l’immagazzinamento della memoria. La comprensione anatomica e funzionale dei circuiti che sottendono la memoria della paura favorisce lo sviluppo e l’utilizzo di strategie innovative per trattare disordini psichiatrici in continuo aumento nella società odierna, come l’ansia generalizzata e il disturbo da stress post-traumatico (PTSD), in cui la paura si trasforma da grande risorsa per la sopravvivenza a fenomeno patologico.
Grazie a una nuova metodologia genetica, i ricercatori hanno potuto evidenziare e manipolare in modo selettivo i neuroni ipotalamici che producono ossitocina – un neuropeptide cruciale nel controllo delle emozioni e di svariate funzioni fisiologiche – e che vengono reclutati durante l’apprendimento, la formazione e il richiamo della memoria della paura associata al contesto. Queste cellule contattano il nucleo dell’amigdala, che ha un ruolo chiave nell’espressione della paura. Opportunamente marcate, sono state rese capaci di esprimere proteine in grado di attivare l’attività neuronale se stimolate con la luce attraverso fibre ottiche (optogenetica) o di reprimerne l’attività se innescate da particolari sostanze chimiche di origine sintetica (chemogenetica).
In particolare si è osservato come, in ratti che associano correttamente una memoria negativa a un particolare contesto – e che quindi reagiscono con immobilità o ‘freezing’ (la tipica risposta alla paura di quando ci si trova in un ambiente potenzialmente pericoloso dal quale è impossibile scappare) – l’attivazione dei neuroni ipotalamici a ossitocina individuati in precedenza dagli sperimentatori induce l’animale a riprendere a muoversi normalmente esplorando l’ambiente. In altre parole, negli animali sperimentali è stato possibile bloccare l’espressione della paura durante tutto il periodo in cui i neuroni etichettati sono attivati, mentre l’immobilità riprende appena la fotostimolazione viene interrotta. Effettuando la manipolazione opposta si è scoperto inoltre che lo stesso circuito è necessario per favorire un processo noto come ‘estinzione’ della paura, fondamentale per la flessibilità cognitiva.