I perfomer camminano in tondo sulla scena, inizialmente si guardano con un certo sospetto, poi, insieme al ritmo crescente dei movimenti, che nell’apparente anarchia stanno invece cominciando a costruire una solida armonia, iniziano i sorrisi, che poi erompono in risate vere e proprie, in un turbine di risate che è il punto chiave dello spettacolo. Nel Teatro alle Tese dell’Arsenale di Venezia è andata in scena la prima italiana di “Augusto”, lavoro del 2018 di Alessandro Sciarroni, che poche ore prima aveva ricevuto il Leone d’Oro alla carriera della 13esima Biennale Danza.
Sul palco i nove ballerini si rincorrono, sembrano giocare, a volte tentano di darsi un contegno, ma questo non fa altro che rendere più fragorose le successive, incontrollabili esplosioni di ilarità. Lo spettacolo viene definito “un omaggio ai clown”, e in effetti i bravissimi interpreti riprendono molte movenze circensi (con una cura del gesto, qualunque gesto, talmente precisa da togliere quasi il fiato, se vi soffermate un attimo a guardare con cura), compresi gli improvvisi scoppi di rabbia o pianto che caratterizzano la classica gestualità dei pagliacci.
Poi però, come è naturale che accada di fronte a un’opera d’arte, il campo si allarga e si complica, le sensazioni si stratificano e la risata apre altre porte.
Per esempio mette in scena l’elemento di vicinanza e distanza che ridere crea: chi ride insieme, come sembrano quasi sempre fare i ballerini, in un certo senso dà forma a una comunità che esclude chi sta al di fuori e non conosce il motivo della risata, per esempio il pubblico, che a sua volta ride per il fatto o per il modo in cui gli altri ridono. Oppure, anche tra i nove in scena, in alcuni frangenti si ha la sensazione, vagamente disturbante, che una parte di loro rida di qualcun altro, creando piccoli muri di invisibile incomprensione all’interno del palcoscenico bianco. O ancora, quando qualcuno erompe in grida o lacrime, salvo poi riprendere a ridere in modo quasi grottesco, si avverte una incertezza che, perdonate la prosopopea, ha qualcosa di ontologico, almeno nel campo delle reazioni e delle relazioni umane.
Insomma, alla fine della performance, che è avvolgente e che, fedele alla filosofia di Sciarroni, attraverso la reiterazione del gesto porta sia i performer sia il pubblico a fare esperienza di altre dimensioni temporali, si arriva quasi provati, travolti da un tour de force di ilarità di cui non conosceremo mai il motivo, se non quando ci rendiamo conto che questo è il ragionamento sull’ilarità stessa, la cosa in sé, diremmo facendo un po’ di filosofia da bar. Come si vede, ancora una sorta di tautologia, che restituisce un senso complessivo a tutto ciò che abbiamo visto nei 60 minuti di performance di “Augusto”. Un’opera che ci ricorda come la danza sia sempre più un elemento chiave della vasta e indefinibile pratica del contemporaneo, tanto da fare ammettere al presidente della Biennale Paolo Baratta la propria “passioncella” particolare per questa forma d’arte.
La Biennale Danza di Marie Chouinard si era aperta, poco prima, con l’intenso spettacolo dei Leoni d’Argento Théo Mercier & Steven Michel, “Affordable Solution for Better Living”, una storia performativa tra “anatomia scorticata” e filosofia simil-Ikea, bruciante e ironica. Mentre prima della messa in scena di “Augusto” Alessandro Sciarroni aveva riproposto un suo lavoro classico e commovente come “Your Girl” del 2007, con Chiara Bersani e Matteo Ramponi. askanews