Schiaffo Usa a Isole Salomone dopo ritiro riconoscimento a Taiwan

Schiaffo Usa a Isole Salomone dopo ritiro riconoscimento a Taiwan
Il vicepresidente Usa Mike Pence
18 settembre 2019

Il vicepresidente Usa Mike Pence ha dato “buca” al primo ministro delle Isole Salomone, Manasseh Sogavare, dopo che la nazione del Pacifico ha riconosciuto la Cina popolare, ritirando il riconoscimento a Taiwan. Gli stessi Stati uniti, in realtà, dal 1979 riconoscono la Repubblica popolare come rappresentante dell’unica Cina, pur essendo gli alleati principali di Taiwan, da cui dipende la sicurezza di quella Pechino considera una provincia ribelle. Due giorni fa Taiwan ha appreso dal governo delle Isole Salomone del ritiro del riconoscimento, che ha assottigliato a 16 il numero delle nazioni che riconoscono Taipei. Washington, dal canto suo, ha espresso “disappunto” per la decisione. Secondo quanto riferisce il South China Morning Post, Ched Morris, il funzionario agli affari pubblici dell’Ambasciata Usa a Papua Nuova Guinea, ha detto oggi che Pence ha un’agenda “abbastanza piena” per l’Assemblea generale Onu, iniziata ieri a New York, e ha anche sentito che il primo ministro “potrebbe anche non partecipare proprio all’assemblea”. Quindi, “come conseguenza la riunione è cancellata”.

Altre fonti hanno confermato alla Reuters la cancellazione e l’hanno direttamente legata alla decisione delle Salomone di spostarsi sulla Cina popolare. Anche perché, al di là del peso specifico della piccola nazione nel Pacifico, in realtà lo “switch” delle Salomone indica che la politica cinese di promettere investimenti e fondi sta modificando lo status quo attorno a Taiwan. “Gli Usa riconoscono le prerogative di ogni paese di determinare i loro rapporti diplomatici, come le Isole Salomone hanno fatto”, ha commentato l’ambasciatrice Usa a Papua Nuova Guinea, Isole Salomone e Vanuatu Catherine Elbert-Gray. “Nondimeno – ha proseguito – noi siamo dispiaciuti dalla campagna continuata di Pechino per affondare lo spazio internazionale di Taiwan e cambiare lo status quo nello stretto attraverso la coercizione, in violazione degli impegni di Pechino di affrontare pacificamente la questione di Taiwan”.

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Sogavare era sotto pressione da parte del mondo politico, il quale si chiedeva quale fosse il vantaggio nel restare al fianco di Taiwan. Quindi, anche in considerazione del fatto che ad aprile l’arcipelago va a elezioni, ha deciso di scegliere Pechino. Pubblicamente aveva già detto che vedeva nella Cina l’opportunità di ottenere infrastrutture importanti in un paese nel quale solo il 50 per cento della popolazione ha l’energia elettrica. Per Taiwan perdere un ulteriore alleato è un problema importante. Ormai solo un piccolo manipolo di paesi in America latina e nel Pacifico la riconosce come rappresentante dell’unica Cina. Dopo l’elezione nel 2016 di Tsai Ing-wen, considerata vicina a posizioni indipendenti, a presidente, la Cina ha avviato una campagna per isolare politicamente Taiwan, perché vede nell’attuale leader di Taipei una minaccia alla nozione dell'”Unica Cina” così come la declina Pechino. A gennaio ci saranno nuove elezioni a Taiwan e, certamente, il rapporto con il Continente sarà centrale.

Anche alla luce di quello che sta accadendo a Hong Kong, l’ex colonia britannica ora regione a statuto autonomo nella Cina, dove da mesi ci sono manifestazioni di piazza a tutela delle libertà di fronte a quella che, secondo i dimostranti, è una volontà cinese di limitarla, Tsai si presenta alle elezioni considerandole un punto di svolta nella lotta “per la libertà e la democrazia”. A opporsi a lei è il leader del partito Kuomintang, il partito nazionalista che fu di Chiang Kai-shek ma che oggi è su posizioni dialoganti con Pechino. C’è poi un terzo elemento nell’equazione, che sono gli Stati uniti. Il presidente Usa Donald Trump, oggi impegnato in una dura guerra commerciale con la Cina, mantiene una posizione di tutela a Taiwan, tanto da spingere per una fornitura senza precedenti di armi a Taipei. Ma si sa che il leader americano tende a essere volubile nelle sue scelte di politica estera e puntare sul suo sostegno rischia di essere una scelta ad alto rischio, anche se obbligata. askanews

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