Dispositivi d’accesso vascolare nei pazienti Covid

23 aprile 2020

La pandemia di Covid-19 sta mettendo a dura prova i sistemi e gli operatori sanitari di tutti i Paesi del mondo, anche per trovare le soluzioni migliori per somministrare in maniera efficace e sicura ai pazienti in terapia intensiva e sub intensiva le terapie e i nutrimenti necessari. Una di queste è l’utilizzo di dispositivi di accesso venoso, il cosiddetto Picc, un catetere venoso centrale a inserimento periferico. Ne abbiamo parlato con esperti della Siaarti (Società Italiana di Anestesia Analgesia Rianimazione e Terapia Intensiva), del GAVeCeLT (Gruppo Aperto di Studio su ‘Gli Accessi Venosi Centrali a Lungo Termine) e dell’Ivas (Società Italiana Accessi Vascolari). Alfonso Papa e Luca Brazzi di Siaarti. “Questa scelta – ha spiegato Papa – è stata dovuta soprattutto alla facilità di poter utilizzare questi strumenti e alla non ripetizione dell’accesso venoso periferico, soprattutto in condizioni sfavorevoli. Se si pensa che il personale che deve lavorare accanto al paziente Covid, in una tuta contenitiva, con due paia di guanti, maschere e visori che tendono ad appannarsi, tutte le manovre che prevedono manualità sono più scomode, quindi ridurre i momenti in cui bisogna effettuare l’accesso venoso è fondamentale”.

“Noi abbiamo un paziente infettivo – ha aggiunto Brazzi – l’idea di utilizzare un approccio che permetta di garantire una sicurezza all’operatore è sicuramente una priorità. La seconda peculitarità dei pazienti Covid è che già da quando arrivano al pronto soccorso hanno più bisogno di un accesso vascolare rispetto ad altri perché spesso sono disidratati, hanno fatto dei trattamenti a domicilio e bisogna anticipare il posizionamento di un accesso che sia in grado di garantire un buon supporto durante le fasi iniziale e tardiva del trattamento. Terza cosa, visto che molti di questi pazienti in fase iniziale vengono trattati con ventilazione non invasiva, cioè maschere, caschi, supporti, non con l’intubazione, è importante che venga privilegiato un approccio che non impatti sull’uso di questi strumenti; cioè il collo, le ascelle sono aree che servono per il trattamento quindi se riusciamo a usare gli approcci che lascino liberi queste sedi permettono una maggior gestione del paziente e un minor rischio che questi accessi si sposizionino e anche una durata più efficacia e lunga dell’approccio vascolare”.

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Ma quanto impatta la scelta di un dispositivo vascolare sul rischio potenziale di diffusione del virus SARS-COV 2 nel personale sanitario e soprattutto quali sono le tecnologie e i percorsi che possono garantire elevati standards di cura e sicurezza per pazienti e operatori? Mauro Pittiruti, coordinatore nazionale del GAVeCeLT e Baudolino Mussa, presidente dell’IVAS. “Sicuramente il posizionamento di un dispositivo di accesso venoso prevede un contatto relativamente intimo con il paziente – ha spiegato Pittiruti – che può diventare pericoloso quando si è molto vicini alle parti del paziente che emettono secrezioni. Il rischio effettivamente dipende molto dal tipo di accesso venoso che si mette, dal sito anatomico in cui si mette e ovviamente dal tipo di protezioni che vengono prese dall’operatore sanitario”. “Abbiamo bisogno di un percorso differenziato tra pazienti Covid e pazienti normali – ha aggiunto Mussa – ma soprattutto preservare le vene, il tessuto venoso periferico dei pazienti Covid perché potrebbero diventare pazienti cronici e quindi avere bisogno di lunghe terapie. È fondamentale iniziare a trattarli nella maniera migliore possibile all’inizio del loro percorso e non durante il percorso quando, ormai, il patrimonio venoso è stato depauperato”. Un ulteriore vantaggio nell’utilizzo dei PICC, hanno precisato gli esperti, consiste nel fatto che il suo posizionamento può essere eseguito rapidamente e direttamente al letto del paziente limitando il rischio di diffusione dell’infezione.

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