E’ una lunga marcia che si svolge per anni dentro l’angusta aula di un tribunale rabbinico israeliano quella che intraprende la protagonista di “Viviane”: il film di Ronit e Shlomi Elkabetz candidato all’Oscar per Israele, nei cinema italiani dal 27 novembre, racconta l’estenuante lotta per il divorzio e per la libertà di una donna infelice ma tenace. La vicenda è ambientata ai giorni nostri e la donna non appartiene a nessuna particolare comunità religiosa, solo che in Israele, a tutt’oggi, non esiste il matrimonio civile, e la legge religiosa sancisce che solo il marito può concedere la separazione e solo un tribunale di rabbini può sancire il divorzio. E se da una parte l’obiettivo principale di quest autorità religiosa è di preservare la “shalom beit”, cioè la pace domestica e il nucleo familiare ebraico, dall’altra alla donna in attesa di divorzio è preclusa la possibilità di ricostruirsi una vita sentimentale ma anche ogni tipo di vita sociale.
Questi sono i presupposti da cui la regista, sceneggiatrice e interprete Ronit Elkabetz è partita per raccontare la storia di Viviane. Nel film la rigidità delle regole, ma anche l’ostinazione del marito a non voler concedere il divorzio, rendono la vicenda drammatica e farsesca al tempo stesso: la triangolazione di sguardi, di accuse, di cavillose congetture tra i coniugi, i loro avvocati e i rabbini, rende questo processo assurdo, anche se reale. I continui rinvii delle udienze, i tentativi di trasformare la donna in un imputata, in un’ingrata, in una squilibrata, il disprezzo anche per le testimoni donne, fanno continuamente aumentare la tensione e il pathos della vicenda, che la regista ha voluto raccontare per rappresentare tutte le donne, non solo israeliane, che si considerano imprigionate a vita dalla legge.