Tra critica e pubblico, Lina Wertmuller riconciliava gli opposti

Tra critica e pubblico, Lina Wertmuller riconciliava gli opposti
Lina Wertmuller
10 dicembre 2021

Se ne è andata con il suo Oscar alla carriera, ricevuto in uno degli anni più difficili della storia recente per il mondo dello spettacolo e non solo. Lina Wertmuller, premiata con la statuetta nel 2020, ha segnato la storia del cinema in molti modi diversi, talvolta contraddittori, ma sostanzialmente quasi mai scontati o di comodo. Oggi che il mondo della cultura la saluta con cordoglio unanime si può provare a ricordarla partendo dalle origini del suo lavoro nello spettacolo, che nel 1951 la vide girare l’Europa con la compagnia di burattini di Maria Signorelli, dopo che dai 18 anni aveva frequentato l’Accademia teatrale diretta da Pietro Scharoff, artista russo che aveva studiato con Stanislavskij.

Forse già in questo accostamento apparentemente anomalo tra una forma di teatro cocciutamente popolare e la più celebre metodologia per attori dell’epoca moderna si sarebbero potute intravedere le linee guida di una carriera di regista che ha saputo intrigare tanto la critica sofisticata – con il suo primo film, “I basilischi”, vince la Vela d’Argento a Locarno e successivamente anche il premio della giuria dei giovani ai Rencontres des Film pour la Jeunesse a Cannes – quanto il grande pubblico del cinema, ma anche della televisione. Allo stesso modo si possono leggere le storiche collaborazioni con attori come la coppia Giannini-Melato, anche questa proveniente da una granitica base teatrale, a cui si affiancano i progetti con Rita Pavone, negli anni Sessanta popstar nazionale in Italia, per la produzione tv de “Il giornalino di Gian Burrasca”. Alto e basso, insomma, mai distinti, sempre rielaborati con un occhio tra il divertito e il militante, e pure in questo dittico di aggettivi così distanti nella storia d’Italia, probabilmente, si trova una sorta di mappa della costante duplicità e originalità della sua ispirazione.

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I film di Lina Wertmuller, come certifica anche il “Dizionario dei registi del cinema mondiale” Einaudi, sono “strettamente connessi alla vita culturale del Paese e hanno tutti gli ingredienti per diventare prodotti di successo: il tono farsesco e aneddotico; la politica come sfondo di vicende erotico-sessuali; un linguaggio che intreccia battute salaci con il dialogo impegnato; l’attenzione messa nel colorire le figure”. In questa adesione a una società e a un tipo di racconto che comunque nasce dalla figura del cantastorie e della commedia dell’arte, in questo cercare di modellare anche i film sul mondo che i film stessi provano a descrivere (con tutte le licenze che la presenza di un Fellini, con cui Wertmuller lavora dai tempi di 8 e 1/2) si trova nel lavoro della regista anche una possibile rappresentazione complessiva (una sineddoche direbbero quelli che masticano i termini forbiti delle figure retoriche) di un momento di grande vitalità del cinema italiano degli Anni Settanta, periodo che è stato per molti versi il più difficile e tragico del secondo Novecento. Ancora una volta due opposti che si toccano anche attraverso l’opera di Lina Wertmuller.

Senza stare a ricostruire una filmografia, quello che sembra attraversare tutti i progetti più riusciti della cineasta con gli occhiali bianchi e con i titoli lunghissimi è la messa in scena di personaggi che hanno una consapevolezza del mondo, per quanto dolorosa e problematica. A volte quasi furiosa. E questa linea di pulizia resta anche nei momenti più grotteschi o scollacciati, resta perché è connaturata alla tradizione italiana (dobbiamo citare Eduardo?, forse non serve neppure), a quel teatro che è stato anche una forma di militanza e di ri-costruzione di un’identità culturale nazionale che ha conosciuto praticamente solo momenti di grande fragilità. Come se avessimo sempre tutti vissuto in una crisi di governo dei nostri cuori e non solo della politica. Forse il cinema di Lina Wertmuller ha avuto successo perché ha provato a raccontare proprio questa crisi. (Askanews)

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