Il direttore, la storia e la divinità: la fenomenologia di Scalfari

Il direttore, la storia e la divinità: la fenomenologia di Scalfari
Eugenio Scalfari
14 luglio 2022

Era diventato il simbolo del grande direttore di giornale: la figura rispettata, temuta e un po’ isolata che guidava, con una certa alterigia, la redazione e anche, in un certo senso, orientava l’opinione pubblica del Paese. Eugenio Scalfari, morto a Roma a 98 anni, ha rappresentato nell’immaginario collettivo una sorta di “ultimo direttore”, nel solco di figure passate alla storia, pur su posizioni diverse, come Luigi Albertini e Indro Montanelli. Nato a Civitavecchia nel 1924 da genitori calabresi, ma trasferitosi da giovane a Sanremo, dove andò a scuola con Italo Calvino, Scalfari iniziò la sua carriera di giornalista in ambito universitario e legato al partito fascista, dal quale poi venne espulso dopo la pubblicazione di articoli critici nei confronti della costruzione dell’EUR. Già da questa vicenda giovanile si vede come l’uomo ha vissuto all’interno delle vicende del secondo Novecento, epoca complessa, dolorosa e contraddittoria, come lo sono stati molti dei suoi grandi interpreti. Dopo la guerra Scalfari si avvicina al partito Liberale e a riviste come Il Mondo e L’Europeo. Nel 1955 partecipa alla fondazione de L’Espresso, come direttore amministrativo. Il settimanale cresce, diventa un fenomeno culturale e segna la storia della stampa italiana. Dal 1963 Scalfari ne diventa direttore responsabile. La sua carriera, e la sua vita, si snoda intorno a storie oscure della Repubblica, come il tentativo di golpe conosciuto come Piano Solo, che Scalfari e L’Espresso denunciarono, oppure con la storia del commissario Calabresi, contro il quale lo stesso direttore firmò una lettera aperta, definita decenni dopo come “un errore”.

La data decisiva della carriera di Eugenio Scalfari è il 14 gennaio 1976, quando esce il primo numero del quotidiano da lui fondato: La Repubblica, che in pochi anni diventa il più letto in Italia. Questione morale, politica e società sono i temi della sua direzione, a cui aggiunge una postura filosofica, accanto però anche a battaglie molte dure, come quella contro Silvio Berlusconi. Nel 1996 lascia la direzione del quotidiano a Ezio Mauro, ma continua a firmare lunghi editoriali domenicali, che diventano una sorta di rito nel giornalismo italiano, che li ribattezza una “messa cantata”. Questi toni, uniti all’aspetto di saggio severo con l’impeccabile barba bianca, consacrano quel ritratto di un uomo che a poco a poco si è ritirato dentro un pensiero che resta forte, ma che tende ad allontanarsi dal mondo. In tal senso la scomparsa di Scalfari sembra in una certa misura fare il paio con quella di Roberto Calasso, l’editore di Adelphi morto un anno fa. Due figure dal grande carisma intellettuale, unite da un’aura di “divinità” laica che li accompagnava nel discorso pubblico e che forse essi stessi non disdegnavano di alimentare. E nel caso di Scalfari negli ultimi anni avevano un peso anche le interviste esclusive con Papa Francesco, al netto poi delle smentite da parte della sala stampa vaticana. Scalfari è stato anche deputato della Repubblica italiana, Cavaliere di gran croce e Grande Ufficiale dell’Ordine al merito. askanews

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