Il primo via libera è appena arrivato, ma la “madre di tutte le riforme” è già pronta per essere modificata. Ci sono almeno un paio di paradossi nel via libera che oggi il Senato ha dato al premierato all’italiana by Giorgia Meloni. Il primo è che, nonostante sei mesi di discussione tra commissione e aula e la lunga trattativa interna alla maggioranza per cercare un punto di caduta, tutti danno per scontato che nel passaggio alla Camera saranno necessarie delle modifiche.
Il secondo è che, proprio nella giornata in cui le opposizioni scendono in piazza in dissenso, da Fratelli d’Italia si fa filtrare una volontà di considerare correzioni che possano essere lette come una apertura almeno da una parte dei partiti di minoranza. In tutto questo, a pesare ci sono le incognite sui tempi. I nodi da sciogliere sul timing sono molti tanto che nei prossimi giorni il dossier verrà affrontato direttamente dalla presidente del Consiglio.
Uno dei punti critici sui quali con ogni probabilità si metterà mano nel secondo passaggio parlamentare è quello del consenso degli italiani all’estero. Si tratta di milioni di voti che, in quanto tali, in termini percentuali possono addirittura essere decisivi per l’elezione diretta del premier. Allo stesso tempo, però, la loro rappresentanza è fissa, ovvero – dopo il taglio dei parlamentari – di 8 deputati e 4 senatori. C’è poi una questione che riguarda il modo in cui è stata scritta la norma anti-ribaltone.
Nonostante una operazione di drafting fatta durante l’esame dell’aula del Senato, infatti, mantiene dei rischi interpretativi che sono stati sollevati anche da un senatore di maggioranza come Marcello Pera. Non si tratta di cambiare il meccanismo fissato per i casi di crisi, frutto di un delicatissimo punto di equilibrio con la Lega, ma poiché quando si mette mano alla Costituzione “anche una virgola conta”, la questione potrebbe non essere meramente lessicale. Ma il vero punto politico potrebbe essere quello di un’apertura verso un riconoscimento delle minoranze, per esempio attraverso l’inserimento di uno statuto ad hoc o della figura del capo dell’opposizione. Ancora una volta, era stato Marcello Pera a presentare un emendamento in tal senso in commissione.
Alla fine aveva deciso di ritirarlo e di trasformarlo in un ordine del giorno per l’aula. Non è dunque escluso che si riparta da lì per cercare di tendere la mano ai partiti di opposizione, almeno ai centristi di Italia viva e Azione che, per esempio, oggi non si sono uniti alla piazza con Pd, Avs, M5s e Più Europa. Lo dice quasi esplicitamente il presidente del gruppo della Lega, Massimiliano Romeo. “Molto – spiega – dipenderà dalla disponibilità di Fratelli d’Italia” di poter “apportare miglioramenti e togliere qualche freccia all’arco delle opposizioni in vista del referendum”. Un esponente di spicco dei meloniani fa anche un altro ragionamento.
“Diciamo sempre che questa riforma non è per noi, ha senso fare ragionamenti pensando a quando non saremo più al governo”. Eventuali modifiche si portano inevitabilmente dietro un allungamento dei tempi. Ma non è l’unica incognita con cui la madre di tutte le riforme dovrà avere a che fare. Il governo ha infatti trasmesso giovedì scorso alla Camera un’altra riforma costituzionale, il ddl Nordio che contiene anche la separazione delle carriere tanto cara al partito di Antonio Tajani. La presidenza di Montecitorio dovrà decidere se assegnarlo alla prima commissione o in congiunta con la commissione Giustizia. Comunque sia, si profila un rischio ingorgo per chi siede nell’organismo parlamentare presieduto da Nazario Pagano di Forza Italia.
Per questo, nei prossimi giorni dovrà essere proprio Giorgia Meloni a decidere se le due riforma dovranno viaggiare in parallelo o se una delle due avrà la precedenza e quale. La decisione dipenderà anche da un’altra domanda: quando bisognerà tenere l’eventuale referendum e, visto che si tratta di due riforme costituzionali, può essere più utile che vengano celebrati insieme o meglio in tempi diversi?
C’è poi un’altra incognita che pesa sulla tempistica, ossia quello della nuova legge elettorale senza la quale di fatto la riforma costituzionale non è applicabile. Nella maggioranza le visioni non sono univoche e l’avversione della Lega per il ballottaggio potrebbe essere uno scoglio non da poco. Per ora la presidente del Consiglio festeggia il primo sì: “Un primo passo in avanti per rafforzare la democrazia, dare stabilità alle nostre istituzioni, mettere fine ai giochi di palazzo e restituire ai cittadini il diritto di scegliere da chi essere governati”. askanews