di Daniele Di Mario
Per mettere pace all’interno del Pd serve il padre nobile del centrodestra, il compianto Pinuccio Tatarella. Può sembrare un’assurdità e invece l’ennesima trovata del presidente del Consiglio e segretario Dem Matteo Renzi per tacitare in direzione nazionale la propria minoranza interna e convincerla a votare le riforme costituzionali, Senato compreso, è quella di evocare il Tatarellum. Lo spiraglio di Renzi viene subito accolto da Pier Luigi Bersani. Il premier evoca il meccanismo – già rodato dallo stesso ex segretario nel 1995 alla Regione Emilia Romagna – che prevede l’elezione dei consiglieri-senatori da parte dei cittadini e la ratifica da parte dei Consigli regionali. Si tratta, in sostanza, di replicare su scala nazionale quanto previsto dalla legge Tatarella. Il presidente di Regione veniva eletto e il Consiglio “ratificava” il listino associato al candidato. Nel caso del Senato, il listino associato al candidato presidente di Regione conterrebbe non i nomi dei consiglieri, ma quelli dei senatori. Un’apertura nella quale la minoranza Pd – che pure decide di non partecipare al voto con cui la direzione Pd dà il via libera alla relazione del segretario – intravede la luce dell’intesa sulle riforme. “Andiamo alla sostanza – dice Bersani – Mi pare che Renzi abbia fatto un’apertura significativa. Voglio essere chiaro: se si intende, come mi pare di avere capito, che gli elettori decidono, scelgono i senatori, e i Consigli regionali ratificano, ne prendono atto, va bene, sono d’accordo. Perché è la sostanza di quello che abbiamo sempre chiesto. Decidono gli elettori, i senatori non li si fa in una trattativa a tavolino. Meglio tardi che mai, se è così”. Sulla stessa linea di Bersani anche Alfredo D’Attorre.
La direzione al Nazareno dà modo a Renzi di toccare tutte le questioni aperte nel partito, dalle riforme alla conquista del Labour da parte di Jeremy Corbyn, dalla scuola alla formazione politica e al sistema delle primarie. La regola che fa valere Renzi è sempre la stessa: si discute, ma senza diktat. Altrimenti si fa come decide il partito. E l’indicazione del Pd in direzione è unanime nell’appoggiare la linea oltranzista di Renzi. Anche perché, sottolinea il segretario, questa legislatura esiste solo in virtù delle riforme. Senza, sarebbe la fine. “Non lo dico come minaccia per il futuro, ma come considerazione del passato”, spiega. La consapevolezza che la carta delle elezioni rimane nel mazzo pronta ad essere giocata, però, è ben presente alla minoranza Pd che continua a chiedere di mettere da parte “braccio di ferro” e “prove muscolari”. Ma il premier mette in guardia i ribelli da tentazioni scissioniste: “Chi di scissione ferisce di elezione perisce e anche questo Varoufakis ce lo siamo tolto”.
Un altro messaggio è indirizzato al presidente del Senato, Pietro Grasso. La prima versione, così come enunciata, è da far tremare i polsi: “Pare che Grasso possa aprire alla modifica di una norma approvata in copia conforme da Camera e Senato. Se questo accadrà, credo si tratti di un fatto inedito, e credo che occorrerà una riunione comune di Camera e Senato”. Tutti pensano a una ingerenza in funzioni che, da Costituzione, spetterebbero al Capo dello Stato. Poi però Renzi chiarisce: “Se Grasso riapre sull’elezione, è ovvio che dobbiamo fare una assemblea dei gruppi del Pd, il Pd si riunirebbe per decidere cosa fare perché si riapre la discussione su tutto”. Lo spazio per l’intesa esiste, la dead line al 15 ottobre rimane. Una data che allontana del resto anche il voto anticipato nel 2016. La soluzione può essere la legge che portò all’elezione da parte del Consiglio regionale emiliano, prima di La Forgia e poi di Errani, quando il presidente eletto Pierluigi Bersani “fu chiamato a fare, bene, il ministro”. Ecco lo spiraglio: senatori eletti dai cittadini e “incaricati” dai Consigli regionali. Se ne può parlare. Tatarella salva l’unità del Pd. Per ora.