Le miniere del Sudafrica sono da sempre state lo zoccolo duro della prosperità del Paese, leader di tutta l’economia del continente. Per l’estrazione dell’oro, dei diamanti, del platino e delle altre risorse strategiche che ne hanno fatto la fortuna, l’industria sudafricana ha, da sempre, impiegato diffusamente una manodopera non qualificata e poco costosa. Oggi il crollo dei prezzi, la perdita dei posti di lavoro, gli scioperi conseguenti e la necessità di effettuare perforazioni sempre più profonde hanno imposto cambiamenti radicali, estremamente produttivi ma assai cari sul piano sociale. “Ci troviamo all’interno di una tempesta perfetta. Il prezzo delle materie prime gioca contro di noi, senza contare i problemi strutturali dell’industria, spiega Bernard Swanepoel, ex direttore esecutivo della Harmony Gold, terza compagnia mineraria sudafricana. Nessuna azienda del settore ha prodotto utili sufficienti per attirare investimenti esteri. Per questo non abbiamo scelta, bisogna cambiare. Dobbiamo reinventare le miniere in Sudafrica, soprattutto quelle che non sono a cielo aperto. Il che significa modernizzare le operazioni”. Scavatrici d’antan, pale e picconi sono andati nei musei. Oggi sono macchinari sempre più sofisticati a fare quasi tutto il lavoro, sotto il controllo di operatori qualificati. Nella miniera di Booysendal, nel nord del Paese; 1.700 impiegati estraggono oltre 4,5 tonnellate di platino all’anno. In una miniera old style ne occorrerebbero 6.000.Ma produttività e occupazione troppo spesso si traducono in un ossimoro irrimediabile. Per gli azionisti, meccanizzazione significa miele per i forzieri. Per i sindacati si tratta di un flagello biblico che mette a rischio decine di migliaia di posti di lavoro, in uno scenario di disoccupazione che raggiunge già il 25%. Trent’anni fa nelle miniere sudafricane lavoravano mezzo milione di operai. Oggi non si raggiunge nemmeno la metà di quella quota. E le cose non fanno che peggiorare. O migliorare, a seconda della sensibilità sociale e del portafoglio azionario. Alcuni sono riusciti ad adattarsi. È anche qui sembra di scorgere gli effetti di lunga durata dell’apartheid. Mark Coli, minatore pellebianca, lavora sottoterra da 33 anni, di cui 10 in una miniera ultra-meccanizzata. “Nelle miniere non circolano più i soldi di una volta. Gli operai devono essere molto più efficienti. La produttività è raddoppiata da quanto ho iniziato a lavorare mentre i salari costituiscono probabilmente la fonte di costo maggiore del settore”, sottolinea Colin. La morale è presto fatta. Gli impieghi che non scompariranno saranno quelli sempre più qualificati, con minatori trasformati da operai in diplomati o laureati in ingegneria e o in materie scientifiche collegate. Saranno, come sempre, gli anelli più deboli della catena sociale a pagare il prezzo di di un’evoluzione industriale ineluttabile. (Immagini Afp)