A 4 anni dal voto sulla Brexit, i britannici hanno cambiato idea

A 4 anni dal voto sulla Brexit, i britannici hanno cambiato idea
Boris Johnson e Michel Barnier
25 giugno 2020

“Sono passati quattro anni dal voto sulla Brexit: tutto e niente è cambiato. Quattro anni di promesse”. Nel giorno in cui nel 2016, il 72% dell’elettorato del Regno Unito si era recato alle urne per decidere sull’uscita dalla Ue, “The Guardian”, una delle testate più rispettabili della Gran Bretagna esce con un articolo molto critico, che dice in sostanza: “Le promesse di un nuovo accordo con l’Ue devono ancora concretizzarsi. Il coronavirus lo rende ancora più urgente” e soprattutto “i Brexiters hanno sbagliato a sostenere che andarsene sarebbe stato facile”.

Johnson deve molto a Brexit. Nel 2016 il suo ruolo di leader della campagna anti-Ue lo aveva catapultato ai vertici del partito conservatore e gli aveva assicurato un seguito di fedelissimi euroscettici. Nel dicembre 2019 è stata la sua promessa di “concludere Brexit” a portarlo alla vittoria elettorale con una schiacciante maggioranza. Ma intanto, un sondaggio YouGov condotto ogni anno dal 2016 rivela un costante aumento della percentuale di chi ritiene che, con il senno di poi, Brexit sia stato un errore (47%), mentre cala il numero di chi pensa sia stata una buona idea (41%). Dunque, la Gran Bretagna resta spaccata a metà tra il fronte pro-Ue e il fronte pro-Brexit, oggi come nel 2016. Allora Leave aveva vinto per 51,9% contro il 48,1% di Remain. I sondaggi però mostrano che dopo il referendum c’è stata un’inversione delle percentuali e che gli eurofili hanno superato gli euroscettici.

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Va detto che questi mesi non sono stati tra i più semplici. Fino a gennaio 2020, la Brexit ha rimosso tutte le altre questioni dall’agenda. Successivamente, il Covid-19 ha fatto la stessa cosa. I problemi sono gli stessi che vanno avanti da mesi, e che avevano fatto fallire i due precedenti giri di trattative a fine aprile e metà maggio: il diritto dei pescatori europei di accedere alle acque britanniche, le misure che il governo britannico deve prendere per evitare quella che l’Unione Europea percepisce come concorrenza sleale – principalmente in materia di aiuti di stato, rispetto dell’ambiente e diritti dei lavoratori – e il meccanismo di arbitrato per risolvere eventuali contenziosi. Il Guardian scrive inoltre che da qualche tempo “a Bruxelles sono sgomenti del fatto che il Regno Unito si rifiuti di parlare della futura cooperazione sulla sicurezza e la difesa”, uno dei temi su cui i funzionari europei non ritenevano ci fosse grande distanza fra le due posizioni. Ma ora che la Gran Bretagna di Boris Johnson sta uscendo da quella che lui stesso ha definito “ibernazione” dovuta alla pandemia, si torna a chiedere a gran voce che la Brexit sia perfezionata. Però ci sono ancora molti nodi da sciogliere, nei negoziati con l’Unione Europea. Michel Barnier, capo negoziatore Ue per la Brexit ha parlato recentemente di nessun progresso significativo e ha avvertito che un accordo dovrebbe essere raggiunto con Londra entro il 31 ottobre. Londra rifiuta per il momento un’estensione del periodo di transizione, oltre la fine di dicembre.

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I tempi rimangono piuttosto stretti. Il primo febbraio il Regno Unito è entrato in una fase di transizione che si concluderà il 31 dicembre 2020. I negoziatori europei e britannici stanno provando a trovare un compromesso sul futuro accordo commerciale entro quella data, in modo da evitare spiacevoli conseguenze. In caso di mancato accordo i paesi dell’Unione Europea dovrebbero infatti imporre dei dazi al Regno Unito, rendendo enormemente più costosi e meno convenienti i prodotti britannici. Il governo britannico farebbe probabilmente lo stesso, danneggiando i paesi europei con cui ha maggiori legami commerciali (cioè soprattutto l’Irlanda). In base agli accordi il Regno Unito aveva tempo fino al primo luglio per chiedere una proroga del periodo di transizione, ma Johnson ha ribadito più volte di non avere alcuna intenzione di farlo: sia perché ha promesso di portare a termine Brexit nei tempi previsti sia per non complicarsi la vita con ulteriori negoziati che potrebbero durare mesi o addirittura anni (cioè il lasso di tempo che di solito ci vuole per negoziare un dettagliato accordo commerciale).

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