Accordo tra Renzi e Martina, Pd non si spacca

Incontri e contatti, le fasi di una giornata convulsa

martinarenzi

Ore 15, Palazzo Giustiniani. Nel suo nuovo ufficio da “senatore semplice” Matteo Renzi accoglie il reggente del partito Maurizio Martina e il presidente del partito Matteo Orfini. C’è anche Lorenzo Guerini, coordinatore della segreteria, candidato in pectore come capogruppo Dem alla Camera. E’ l’ultimo tentativo di arrivare alle assemblee dei gruppi che dovranno eleggere i propri presidenti senza una spaccatura tra renziani e anti-renziani. L’ex segretario, forte dei numeri, oltre a Guerini, vuole il fedelissimo Andrea Marcucci al Senato, ma la minoranza interna è in subbuglio. Non vuole due esponenti vicini all’ex segretario alla guida dei gruppi e soprattutto al Senato prova a forzare, proponendo altri nomi, come quello di Roberta Pinotti. “Matteo, bisogna trovare una mediazione”, è la richiesta di Martina. Tra i due, secondo quanto si apprende, negli ultimi giorni i rapporti sono stati tesi. Anche per questo la richiesta del reggente trova contrari i “falchi” renzisti, ma incontra anche l’apertura di Guerini, pronto a farsi da parte, e quella (parziale) dello stesso Renzi.[irp]q

L’ex leader Dem, in mattinata, aveva ricevuto la disponibilità di Delrio, pur non entusiasta, racconta chi ci ha parlato, a fare il capogruppo. E al Nazareno aveva visto tra gli altri Luca Lotti. Ma per trovare una intesa serve un contatto diretto e l’appuntamento è fissato in Senato. “Se vogliono un cambio di nomi si può fare, per me le proposte sono due: Guerini e Bellanova o Delrio e Marcucci”, è il senso della risposta di Renzi a Martina. Il reggente prende atto e dopo una breve consultazione arriva il via libera di tutto il partito (pur senza grande convinzione) al ticket Delrio-Marcucci. A quel punto le assemblee dei gruppi, prima alla Camera e poi al Senato, sono una formalità. A sera, chiusa la partita, ognuno può rivendicare una vittoria: i renziani secondo cui è andata “abbastanza bene”; Martina che può dire di aver dato un “segnale di squadra e unità”; le minoranze che hanno fatto, in parte, cambiare i nomi proposti da Renzi. Alla fine, dunque, tutti contenti, nessun contento. Fino al prossimo braccio di ferro.