Asia centrale, fucina di foreign fighters e lupi solitari. Uzbeko è l’attentatore di Manhattan

Asia centrale, fucina di foreign fighters e lupi solitari. Uzbeko è l’attentatore di Manhattan
3 novembre 2017

Per ora i cittadini degli Stati centro-asiatici di quella che fu l’Urss non figurano nel ‘travel ban’ voluto da Donald Trump per limitare gli ingressi negli Usa dai Paesi considerati a rischio terrorismo dalla Casa Bianca. Eppure l’Uzbekistan, di cui è originario l’autore dell’attentato di martedì a Manhattan, ma anche Kirghizistan, Kazakistan e Tagikistan sono serbatoi di jihadismo che ha alimentato i flussi di militanti al servizio dell’Isis verso la Siria e l’Iraq. Cittadini da questa regione hanno firmato più di un’azione di matrice islamista negli ultimi tempi: l’autore dell’attentato a Stoccolma lo scorso aprile è uzbeko, a farsi saltare in aria nella metropolitana di San Pietroburgo sempre ad aprile è stato un kamikaze kirghizo, un uzbeko ha compiuto la strage in una discoteca di Istanbul lo scorso Capodanno. Le cifre sull’entità dell’esodo jihadista dall’Asia centrale ex sovietica cambiano secondo le fonti. Un accurato rapporto dell’International Crisis Group (Icg) stima “tra 2mila e 4mila” il numero dei cittadini dei Paesi dell’Asia centrale partiti tra il 2012 e il 2015 per combattere nei territori controllati dall’Isis. Secondo fonti di intelligence Usa citate dalla Nbc sono circa 2mila gli esuli nel nome della jihad. Altre fonti arrivano a ipotizzare 10mila foreign fighters dal Centro-asia, ma contando anche Afghansitan e Pakistan. Non ci sono ovviamente stime sui singoli attivi in Occidente, “lupi solitari” o membri di cellule organizzate. Ma da tempo i servizi (soprattutto russi) e analisti di tutto il mondo hanno lanciato l’allarme su questa regione-incubatore di radicalizzazione, un fenomeno che le autorità locali non sono in grado di gestire, anzi, negli hanno contribuito ad aggravare. I regimi autoritari di Uzbekistan, Kirghizistan, Kazakistan, Turkmenistan e Tagikistan hanno infatti usato la questione dell’estremismo per imbrigliare l’opposizione di qualsiasi orientamento: puntando il dito contro i “terroristi” ogni volta che c’era un problema di dissenso, hanno finito per giocare a favore dei veri estremisti. Ad esempio dal 1991 in poi, in Uzbekistan la repressione di gruppi islamisti è diventata prassi. Una di queste campagne nel 2005 ha fatto tra i 200 e i 1.500 morti, a seconda delle fonti: per il governo si tratta di pericolosi estremisti eliminati, per molti testimoni locali sono stati uccisi pacifici manifestanti.

Ieri il presidente uzbeko Shavkat Mizoyoyev ha inviato a Donald Trump un messaggio di cordoglio in cui condanna “qualsiasi forma e manifestazione di estremismo e terrorismo”, invitando la Comunità internazionale ad “unire gli sforzi” per combatterle. Le radici del fenomeno affondano in epoca sovietica, quando l’islam – religione in cui si riconosce oltre l’80% della popolazione delle repubbliche centro-asiatiche – era bandito e attivamente represso. Con la fine dell’Urss, la religione musulmana è fiorito alla luce del sole, diventato identitario nel vuoto ideologico lasciato dal crollo dell’impero socialista, in Paesi che comunque rivendicano l’assetto laico, con le fasce più povere della popolazione facile preda dei predicatori radicali e dei gruppi di reclutamento. Il più brutale dei conflitti scoppiato dopo la fine dell’ex Urss vide sanguinosi scontri tra gruppi islamici e comunisti filo-russi, all’iniziio degli anni Novanta in Tagikistan, nella generale indifferenza: quasi 100mila i morti, in base alle stime dell’Onu. Una guerra civile consumatasi nell’indifferenza generale. Ha fatto più notizia, invece, Gulmurod Khalimov, il comandante delle forze anti-sommossa tagike addestrato negli Usa, che l’anno scorso ha lasciato il suo Paese per unirsi alla jihad dell’Isis. La crisi economica degli ultimi anni ha aggravato ulteriormente il quadro. I milioni di emigrati in Russia, in buona parte tagiki, hanno smesso di inviare soldi in patria e sono diventati presenze sempre meno gradite nella Federazione russa. La ‘grande sorella’ russa, poi, con l’intervento militare in Siria è diventata ufficialmente bersaglio dell’Isis.

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