Aung San Suu Kyi, leader de facto di Myanmar ed ex icona globale dei diritti umani diventata però col tempo invisa ai circoli democratici e progressisti internazionali, voterà domattina in maniera anticipata per le elezioni generali dell’8 novembre a Napypyidaw, la capitale amministrativa birmana. Elezioni che tutti i partiti, tranne il suo, avrebbero voluto rimandare per la pandemia Covid-19, ma non hanno potuto proprio per la volontà della leader. E’ una tornata elettorale non benedetta da quell’aura di ritorno alla democrazia che aveva accompagnato la vittoria di Aung San Suu Kyi e della sua Lega nazionale per la democrazia nel 2015. Per quanto la leader – che per costituzione non può avere l’incarico formale di presidente – goda ancora di ampio sostegno nella popolazione, nel delicato patchwork etnico e religioso del paese gli equilibri sono piuttosto precari. E la crisi Covid-19, che in Myanmar ha colpito più fortemente che in altri paesi del Sudest asiatico, è destinata a rendere ancora più fragile il processo elettorale.
La Commissione elettorale ha già cancellato il voto in 17 località dello stato Rakhine, dove è in corso un conflitto, prorogando il potere della Lega nazionale per la democrazia e sporcandone ancor di più le credenziali democratiche. Ancor peggio, la minoranza musulmana Rohingya – oggetto di violente persecuzioni negli ultimi anni – è esclusa dal voto. La pandemia, che sembrava nella prima ondata aver sostanzialmente risparmiato il paese, sta colpendolo più duramente nella seconda. Nelle ultime settimane i numeri dei positivi individuati è salito oltre mille al giorno e i morti accertati sono oltre 700, il doppio del dato di agosto. Una progressione in corso che avrebbe potuto suggerire di rimandare il voto.
Ma il partito di Aung San Suu Kyi ha deciso di procedere comunque, nonostante l’opposizione chiedesse di rimandare, vietando però manifestazioni di massa. E prevedendo alcune misure, come un aumento dei seggi (da 40mila a 50mila) in maniera da rendere minore la pressione su ognuno di essi, e richiedendo che gli elettori si disinfettino le mani prima di depositare il voto. La spiegazione dalla dalla Lega nazionale per la democrazia per la sua perentoria ostilità allo spostamento delle elezioni, comunque, ha una sua “ratio”. Costituzionalmente, il paese deve avere un governo nuovo entro febbraio. Non arrivare in tempo a quella data creerebbe una crisi istituzionale, in un paese solo da pochi anni uscito dal dominio di una dura giunta militare e in cui i generali hanno ancora un grip molto forte sulla politica. Il timore, insomma, è che lo spazio lasciato vuoto dal potere civile possa essere riempito da altri. I militari hanno già le loro mani su ministeri chiave, come quello della difesa e dell’interno.
Questa spiegazione, tuttavia, non è considerata valida da chi a Aung San Suu Kyi si oppone. I partiti dell’opposizione sono una galassia frammentata, che non sembra avere grandi chance di insidiare quello della leader. Oltre ovviamente al partito dei militari, USDP, si presenta una serie di nuovi partiti come il Partito del popolo, guidato da U Ko Ko Gyi, ex leader studentesco ai tempi della 8888 Generation, movimento all’origine di grandi proteste di massa, che sono costate a Ko Ko Gyi 17 anni di carcere. E poi c’è il Partito dei pionieri del popolo di Daw Thet Thet Khine, un ricchissimo commerciante di gemme. Thant Myint-U, autore di “L’Altra storia della Birmania”, in uscita anche in Italia, in un tweet ha detto che “le elezioni saranno probabilmente 1) profondamente imperfette 2) ma ancora meglio di quasi tutte le altre nella regione 3) anni luce da quello che immaginavamo dieci anni fa 4) non aiuteranno Myanmar ad affrontare alcuna delle sue grandi sfide”. askanews