Per nove mesi, dopo il referendum sulla Brexit, sul contenuto dei futuri negoziati fra il Regno Unito e l’Ue per il divorzio e per le relazioni future tra le due parti sono pesate l’incertezza più totale e polemiche a volte inutilmente aggressive. Da mercoledì, dalla consegna della lettera della premier britannica Theresa May al presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, con la notifica (secondo l’art. 50 del Trattato Ue) della volontà di recesso di Londra dall’Unione, e dal discorso che la stessa May ha tenuto ai parlamentari britannici a Westminister, sappiamo finalmente con buona approssimazione su che cosa verteranno i negoziati, su quali punti sono più che probabile contrasti e difficoltà, e su quali invece si andrà più spediti, con migliore comprensione reciproca e convergenza degli interessi delle due parti. In estrema sintesi, appartengono alla prima categoria (trattative difficili, posizioni distanti) tre questioni: il problema del “conto” che l’Ue chiede al Regno Unito di pagare, quello della contemporaneità (come vuole Londra) o della successione (come vuole l’Ue) dei due diversi negoziati, sui termini del divorzio e sulla futura relazione fra l’Unione e il Regno Unito, e, infine, il riaggiustamento del mercato unico dell’Ue con l’espulsione del Regno Unito dal sistema integrato attuale, soprattutto nel settore finanziario e dei servizi, in cui Londra ha un ruolo centrale.
Alla seconda categoria (posizioni più convergenti, trattative apparentemente più facili) appartiene invece – ed è una sorpresa – una delle questioni che avevano sollevato più animosità e polemiche nei mesi scorsi: il trattamento dei cittadini europei sul suolo britannico e di quelli britannici nell’Ue. C’è, infine una categoria a parte, quella dei possibili malintesi da chiarire, e riguarda un settore in particolare, quello della cooperazione nella sicurezza e difesa. Una lettura forse frettolosa della lettera della May, e comunque l’ambiguità di certe sue affermazioni, hanno dato la stura a virulente polemiche su un presunto, velato “ricatto” su cui Londra avrebbe intenzione di impostare il negoziato con l’Ue. Secondo questa interpretazione (proposta da una parte della stampa nazionale), in pratica, se l’Ue non accetterà le condizioni chieste dai britannici per ottenere un buon accordo in campo commerciale, il Regno Unito avrebbe l’intenzione di minacciare di ritirarsi dalla cooperazione nei settori della sicurezza e difesa, e nelle aree giudiziaria e di polizia, dell’intelligence, e della lotta alla criminalità e al terrorismo. Va sottolineato comunque che il governo di Londra ha subito smentito questa lettura. Nella sua lettere, in realtà, la May ha usato toni diplomatici e amichevoli, ha ribadito che lasciare l’Ue non significa lasciare l’Europa, e ha annunciato che il Regno Unito vuole “svolgere il proprio ruolo affinché l’Europa rimanga forte e prospera e capace di leadership nel mondo, con la proiezione dei suoi valori e difendendosi dalle minacce alla sicurezza”. Non era scontato, viste le polemiche infuriate nei nove mesi passati dal referendum, l’apparente prevalenza delle ragioni dei sostenitori della “hard Brexit” e la famosa, minacciosa frase della stessa May secondo cui è “meglio nessun accordo che un cattivo accordo”.
La premier britannica auspica un “partenariato speciale” di Londra con l’Ue, e afferma di credere che un accordo sia possibile, e riconosce che sarà necessario un compromesso per arrivarci, con concessioni da entrambe le parti, anche se evoca comunque la possibilità che i negoziati non abbiano successo e Londra esca dall’Ue senza alcun accordo, fra due anni esatti. In quel caso, osserva la May, “dovremo avere relazioni commerciali nei termini previsti dalla Wto”. Nella lettera, comunque, e più ancora nel discorso davanti ai Comuni, la May afferma con chiarezza di escludere una possibile permanenza del Regno Unito nel mercato unico (anche se ormai fuori dall’Ue, sull’esempio della Norvegia), una soluzione che caldeggiavano invece i pro-europei del “Leave” e i cosiddetti “soft Brexiter”. Il ragionamento della May di fronte ai Comuni è chiarissimo: “Siccome i leader europei hanno ripetuto molte volte che noi non possiamo scegliere solo quello che ci interessa (‘cherry pick’, ndr) del mercato unico, e restarne membri senza accettare le quattro libertà (di circolazione per merci, servizi, capitali e persone, ndr) che sono indivisibili, noi rispettiamo questa posizione. E siccome accettare quelle libertà (ma in particolare la libera circolazione dei cittadini Ue, ndr) è incompatibile con la volontà espressa democraticamente dal popolo britannico, noi non saremo più membri del mercato unico”. Si intravede, invece, dove la premier britannica vuole andare a parare con il “partenariato speciale” che viene prospettato: un accordo di libero scambio di tipo nuovo, con l’accesso privilegiato soprattutto ad alcuni settori del mercato unico Ue che interessano Londra, in particolare il settore finanziario e quello dell’economia digitale (che la May chiama “network industries”) senza pagare nulla al bilancio comunitario e sottraendosi completamente alla giurisdizione della Corte europea di Giustizia. Queste sono esattamente le due condizioni che, per contro, sono imposte alla Norvegia, all’Islanda e al Liechtenstein per restare nel mercato unico, attraverso l’appartenenza al trattato sullo Spazio economico europeo senza essere membri dell’Ue. Inutile dire che su questo i negoziati saranno difficilissimi.
Sul “conto” da pagare per la Brexit, che si stima ammonti a circa 60 miliardi di euro (ma la Commissione europea non ha mai confermato questa cifra), la May è apparsa disposta a negoziare “un accordo equo sui diritti e gli obblighi del Regno Unito”.Significa che alla fine Londra qualcosa accetterà di pagare, anche se molto meno delle cifre che girano oggi. La premier sa bene che difficilmente potrà sottrarsi all’obbligo di onorare gli impegni finanziari presi dal Regno Unito per il quadro di bilancio comunitario pluriennale 2014-2020, con gli stanziamenti relativi ai contratti nei programmi comunitari e alle spese amministrative. May ha poi chiesto che i negoziati sulla Brexit siano condotti in parallelo con le trattative sul futuro delle relazioni fra Gran Bretagna e Unione europea. “Crediamo necessario concordare i termini della nostra futura partnership in parallelo con la nostra uscita dall’Unione”, ha scritto. Ma su questo punto Londra è in rotta di collisione con l’Ue. Dalla Bruxelles, e mercoledì anche da Berlino, con l’intervento della cancelliera tedesca Angela Merkel, si continua a ripetere come sia inaccettabile, e non in linea con il Trattato, pretendere di negoziare in parallelo le condizioni del divorzio e il rapporti futuri con lo Stato secessionista. Prima l’accordo sui termini del recesso, poi, una volta che il Regno Unito non sarà più uno Stato membro, si potrà delineare le nuova relazione, ripetono i governi Ue e soprattutto le istituzioni europee. Perché questa insistenza sui negoziati in successione, invece che paralleli? Una delle ragioni è proprio la questione del “conto” che Londra dovrà pagare. Se i negoziati per il divorzio fossero in contemporanea con quelli per il “nuovo partenariato”, la questione del conto da pagare, e tutti gli altri punti da risolvere per il recesso “ordinato” del Regno Unito finirebbero probabilmente “sullo stesso tavolo”, e si rischierebbero scambi “perversi”, per così dire, fra questioni di principio e trattative commerciali. Ed è questo che l’Ue non vuole.
Inoltre, per Londra non sarebbe la stessa cosa trattare sui rapporti futuri con l’Ue come Stato membro ancora a pieno titolo (come il Regno Unito sarà per altri due anni), o come un paese terzo ormai uscito dal club. Nel primo caso, il Regno Unito, dall’interno, potrebbe aprire trattative bilaterali dietro la scena e offrire condizioni più favorevoli ad alcuni paesi membri per dividere il fronte Ue e garantirsi condizioni migliori nell’accordo futuro. Si avvicinano notevolmente, invece, le posizioni fra le due parti per quanto riguarda il futuro status degli oltre tre milioni di cittadini Ue che vivono nel Regno Unito e del milione e 200 mila britannici che vivono in altri Paesi dell’Unione, dopo le polemiche dei mesi scorsi, arrivate fino a minacce chiaramente xenofobe da parte degli “hard Brexiter”. “Noi – ha detto la May ai Comuni – cerchiamo di garantire il più presto possibile i diritti dei cittadini Ue che vivono già in Gran Bretagna e i diritti di cittadini britannici che vivono in altri Stati membri. Questa è stabilito chiaramente nella lettera (consegnata a Tusk, ndr) come una priorità immediata per i negoziati. E garantiremo che i diritti dei lavoratori siano pienamente tutelati e mantenuti”. Un altro punto su cui c’è una potenziale convergenza fra Ue e Regno Unito è il nodo irlandese. “Noi vogliamo mantenere l’area comune di circolazione delle persone (dell’Irlanda del Nord, ndr) con la Repubblica irlandese. Non ci dovrebbe essere un ritorno delle frontiere del passato”, ma controllando e gestendo l’immigrazione negli interessi della Gran Bretagna, ha detto la May nel suo storico discorso. Anche l’Irlanda è fortemente contraria al ritorno della frontiera con la parte Nord dell’Isola che fa parte del Regno Unito. Ma L’Irlanda fa parte del mercato unico, e l’accordo commerciale fra Londra e l’Ue avrà sicuramente conseguenze sulla permeabilità di quel confine, che diventerà comunque una frontiera, fra uno Stato membro e un paese terzo.
Un elemento nuovo, e per certi versi sorprendente, infine – al di là dei possibili malintesi – è quello dell’accento posto nella lettera della May sulla cooperazione per la sicurezza, in un’Europa, che non è mai stata “più fragile di oggi dalla fine della Guerra Fredda”, e nella lotta alla criminalità e al terrorismo”. Questa cooperazione sarebbe “indebolita” da una mancanza di accordo generale con l’Ue, e questa prospettiva va evitata, sostiene la premier. E’ una ragionevole offerta di collaborazione all’Unione, o – come l’ha interpretato soprattutto la stampa britannica su posizioni più critiche contro la Brexit – un avvertimento? Come dire: attenti, che se non si farà l’accordo sulle questioni commerciali, ci saranno conseguenze sul piano della sicurezza e della cooperazione di polizia. L’interrogativo, nonostante le smentite di Londra, per resta aperto, e solo l’andamento dei negoziati ci dirà quali siano le vere intenzioni della May. Senza parlare di avvertimenti, minacce e ricatti, si può ipotizzare, tuttavia, che il Regno Unito cerchi di far valere il suo ruolo chiave nella cooperazione per la sicurezza europea (e forse anche per la futura difesa comune) per giustificare la propria posizione di privilegio sul piano commerciale – con accesso al mercato unico Ue garantito almeno in alcuni settori, senza sottostare agli obblighi del “modello norvegese” – nell’auspicato “partenariato speciale” con l’Ue. In questo caso, comunque, le parole più di buon senso le ha dette, mercoledì sera, il presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, illustrando alla stampa le decisioni della Conferenza dei capigruppo dell’Assemblea di Strasburgo. “La cooperazione con il Regno Unito nei settori della difesa, della polizia, dell’intelligence, della lotta al terrorismo, e in materia giudiziaria dovrà continuare comunque, che ci sia o no un accordo”, ha sottolineato Tajani.