di Alessandro Di Matteo
“Se dalle amministrative arrivasse un chiaro segnale contro il governo – ragionava già settimane fa un bersaniano – ci sarebbe la possibilità di coagulare tutte quelle forze al referendum. Per questo aspettiamo a prendere una posizione…”. E per questo, soprattutto, la minoranza ha precostituito nelle scorse settimane il terreno per una possibile campagna contro il referendum-plebiscito. L’idea di schierarsi per il no è sostenuta da Massimo D’Alema, mentre finora è sembrato più scettico Pier Luigi Bersani, convinto che non sia facile votare no dopo aver detto sì in aula.
Per l’ex segretario Pd, semmai, è più praticabile una sorta di disimpegno attivo, ovvero una posizione chiaramente critica che – senza arrivare ad un pronunciamento per il no – faccia chiaramente capire a tutti che il Pd non condivide l’uso (“Il plebiscito”, dirà la minoranza) che Renzi vuole fare del referendum. Una linea che non è sufficiente, secondo gli ex Pd come Stefano Fassina e Alfredo D’Attorre, convinti che “a un certo punto bisognerà scegliere.
Anche per questo l’esito dei ballottaggi è decisivo: che ci sia un vento anti-renziano è stato chiaro già dal primo turno, ma vincere a Torino e magari a Milano alla fine permetterebbe a Renzi di ripartire senza troppi danni. Anche perché il premier è convinto che per la minoranza non sarà facile schierarsi esplicitamente per il no, tanto più se alla fine le due grandi città del nord saranno rimaste al Pd e al centrosinistra. Certo, il premier potrebbe comunque essere costretto a rivedere alcuni equilibri nel partito, proprio per preparare al meglio la volata per il referendum: anche nella maggioranza renziana i malumori non mancano, sia tra i ‘giovani turchi’ di Matteo Orfini e Andrea Orlando, sia in esponenti come Sergio Chiamparino, Graziano Delrio i veltroniani… Tutte aree che non pensano affatto di mettere in discussione il segretario-premier, ma che chiedono una “gestione più collegiale”, un Pd meno affidato al solo ‘giglio magico’.