A testa bassa come un giorno di campagna elettorale qualunque a caccia dell’ultimo voto disponibile. Dopo gli ultimi botti di ieri, lui con Giuliano Pisapia alla scuola Holden, lei in piazza sotto la pioggia alle Vallette con Alessandro Di Battista, hanno concluso così in modo quasi ordinario Piero Fassino e Chiara Appendino la loro corsa alla carica di sindaco di Torino. Lei ancora una mattina al mercato – li ha fatti praticamente tutti -. Lui concentrato innanzitutto sugli incontri legati al tema del lavoro, il rapporto Ires, una conferenza stampa sui cantieri che metterà in moto la sua nuova giunta, un incontro con l’ex ministro e suo sostenitore Cesare Damiano. Chiara Appendino si è guardata la partita in un pub. Fassino soltanto il primo tempo con il comitato inquilini. Stasera si chiude, lei con una bicchierata ancora in piazza Vittorio come alla vigilia del primo turno. Lui poco prima di mezzanotte sarà alla moschea di San Salvario. C’è anche tempo per una scaramuccia sulle infrastrutture e i posti che genererebbero. Se verrà eletto dice Fassino avvierà lavori per 4 miliardi in cinque anni con 20mila posti di lavoro. E’ irresponsabile promettere posti di lavoro su investimenti ipotetici a poche ore dal voto, attacca lei.
Acqua fresca rispetto ad altre città. Per quanto si siano sforzati di accendere un po’ le polveri, i toni sono rimasti bassi. Qualche accento in più sulla povertà, sulle due città, una di serie a e una di serie b, sul sistema Torino che tiene assieme le stesse persone e le redini della città da oltre 20 anni, da parte di Appendino che ancora ieri sera davanti a diverse centinaia di residenti del quartiere delle Vallette si è lasciata andare: “Loro hanno i soldi, noi abbiamo le persone”, ha gridato di fronte alla folla urlante. Da parte del sindaco uscente invece l’accusa ai 5 Stelle di essere il partito del “no”, di “non avere una visione” e quindi di non pensare allo sviluppo, di puntare al reddito di cittadinanza, ma non al lavoro che è il vero strumento di dignità. “E senza crescita non c’è lavoro”, sentenzia il sindaco uscente. Hanno dato tutto quello che potevano. Fassino in particolare si è speso , e ha speso il suo staff, forse ancora più della prima elezione di cinque anni fa. “Ho incontrato 118mila persone – osserva – sono tante, ma ancora poche rispetto ai settecentomila elettori”. Avesse potuto, ci avrebbe provato a incontrarli tutti. Del resto è lui quello che rischia di più in questo voto.
Se andrà bene, ha fatto il suo dovere. Se va male saranno dolori, e non solo per i primi due giorni, come ha garantito lui a “Un giorno da pecora”. Appendino sa già di aver raggiunto un risultato storico, per quel che vale nella memoria di oggi: ha portato il movimento Cinque Stelle ad essere il primo partito a Torino, anche se Fassino puntualizza, il Pd è primo in 28 quartieri su 34. Ha costretto il sindaco, uno dei personaggi politici più noti in Italia, a misurarsi al ballottaggio, lo ha compresso in confronti televisivi alla pari, lui che è l’uomo delle relazioni enciclopediche di tradizione comunista. Ma tutto sommato è stato un confronto tra due personaggi, per certi versi anche simili. Profondamente torinesi, meticolosi, determinati, e misurati. Conoscendone le insidie, l’Appendino si è sempre tenuta alla larga dalla politica nazionale, mettendo a frutto invece le cose che conosce di più, la sua attività di consigliera d’opposizione. Mai un cambio di ruolo, o di stile. Come Fassino del resto, tornato alla grisaglia dopo qualche giornata di maglioncino, tenacemente ancorato a quanto di buono ha fatto la sua amministrazione e a quanto è ancora in grado di garantire. In fondo speculari. “La prenderei nella mia squadra, mi piace la sua combattività”, ha concesso Fassino sulla sfidante. E lei? Lei, da perfetta fassiniana, non è stata al gioco “io la mia squadra ce l’ho già”, ha rintuzzato.