Riformare il comparto è una sollecitazione che arriva da più parti. Da ultimo in ordine di tempo il Fondo monetario internazionale (direttore generale, Christine Lagarde, foto) che in un report del settembre scorso invitava a realizzare modifiche per le popolari. In passato anche la Commissione europea aveva sollecitato una riforma. La necessità di riforme è stata più volte sottolineata dalla Banca d’Italia e dall’Antitrust. A parte la difesa di interessi, istanze localistiche ed altri fattori frenanti, una riforma delle popolari è complessa e difficile in quanto non si tratta di un settore inefficiente. Inoltre il radicamento con il territorio è stato uno degli elementi di forza nel corso degli ultimi sei anni di crisi. Non solo in Italia ma anche nel resto d’Europa dove il credito cooperativo è una realtà importante, dalla Francia al’Olanda, dalla Germania all’Austria con colossi come Credit Agricole, Credit Mutuel, Rabobank, Dz Bank.
In Italia il settore delle popolari rappresenta un pezzo importante del panorama del credito e proprio nella crisi ha rafforzato la presenza. Mentre l’intero settore delle banche ha perso in cinque anni 30mila dipendenti e alcune migliaia di sportelli, il mondo delle popolari è cresciuto. Tra il 2006 e l’anno scorso gli istituti sono scesi da 93 a 70 mentre gli sportelli sono aumentati da 7.700 a quasi 9.300 (con una quota che rappresenta il 25% del mercato), i dipendenti sono passati da 73mila a 81mila, i soci da 1,045 milioni a 1,340 milioni i clienti da 8,1 milioni a oltre 12 milioni e il totale dell’attivo da 387 a 450 miliardi. Numeri indicativi sulla capacità delle popolari di affrontare la durissima crisi finanziaria e la lunga stagione di recessione economica.
Limite al possesso azionario, voto capitario (un socio esprime un voto a prescindere dalle azioni possedute), gradimento per diventare socio, limitazione all’uso delle deleghe sono le caratteristiche del settore delle popolari sulle quali l’esecutivo intende mettere mano. Nel recente passato i vari tentativi di riformare il comparto non prevedevano la cancellazione del voto capitario mentre il focus era sull’aumento del limite al possesso azionario che oggi è ancora dello 0,5%. Nel 2007 si era arrivati a formulare un testo unico con l’intesa tra maggioranza e opposizione e l’ok del governo che prevedeva di innalzare il limite all’1%, con deroghe fino al 3% per le fondazioni bancarie e il 5% per gli investitori di lungo termine come i fondi pensione in particolare per le popolari quotate in borsa. All’ultimo momento l’intesa saltò.
Banca d’Italia e Antitrust in più occasioni hanno suggerito l’esigenze di modifiche in particolare per le quotate per assimilarle di più alle Spa. I critici ai tentativi di riforma temono soprattutto che la trasformazione in Spa punti a rendere contenibili le popolari, come dimostra il forte rialzo dei titoli a Piazza Affari negli ultimi due giorni. In realtà il consolidamento del settore non necessita di riforme come dimostrato dalle tante operazioni di fusioni e acquisizioni. La Banca d’Italia guidata da Mario Draghi ha sollecitato fusioni e acquisizioni bancarie per affrontare le sfide della globalizzazione e dell’innovazione tecnologica. La risposta è stata positiva anche dal mondo cooperativo con la nascita di grandi gruppi come Banco Popolare e Ubi Banca e il tentativo fallito di una superpopolare tra Bpm e Bper.
La difficoltà della riforma è proprio tenere insieme, come assetto istituzionale, un grande gruppo e una entità locale con qualche decina di soci. Anche nel mondo dei sindacati negli anni scorsi c’è stata una apertura a riformare il settore distinguendo tra i grandi ed i piccoli istituti ma tenendo ferma, quale caratteristica irrinunciabile delle popolari, la disciplina del voto capitario. Sulla trasformazione in Spa delle popolari da anni gli economisti si dividono tra favorevoli e contrari. Se si guarda al passato le esperienze di Banca Agricola Mantovana e di Antonveneta hanno lasciato molti rimpianti e pochi vantaggi per le comunità dove operavano.