Bce prepara attacco a deflazione, ma resta nodo politico

Bce prepara attacco a deflazione, ma resta nodo politico
1 gennaio 2015

Quota 2.134 miliardi di euro è il picco raggiunto dal bilancio della Bce prima della pausa natalizia, il balzo di 100 miliardi proprio nell’ultimo scorcio di dicembre frutto della seconda tranche di prestiti quadriennali (Tltro) concessi alle banche dell’Eurozona e in misura minore degli acquisti relativi al terzo programma di Covered Bond e il primo di Abs. Tltro, Covered Bond e Abs sono le armi messe in campo da Francoforte a partire da settembre, quando il bilancio della Bce viaggiava intorno a 2 mila miliardi. L’espansione del bilancio attuata aumentando la liquidità a disposizione delle banche ha lo scopo di combattere deflazione e rilanciare il credito all’economia.

Il presidente dell’Eurotower, Mario Draghi (foto), non ha nascosto l’intenzione della banca centrale di ampliare il bilancio fino al picco, oltre quota 3mila miliardi, toccato nel novembre del 2012. La strada è ancora lunga, perché nonostante il balzo di fine anno, il bilancio 2014 della Bce sarà comunque inferiore a quello del 2013 (2.285 miliardi). I mille miliardi che mancano per arrivare a quota 3mila non potranno arrivare solo dai prestiti quadriennali alle banche(Tltro), anche se ci sono ancora quattro tranche disponibili nel 2015.

Nelle due tranche del 2014 dalla Bce sono arrivati 212 miliardi, almeno un terzo è stato utilizzato dalle banche per rimborsare anticipatamente parte dei prestiti triennali ricevuti dall’Eurotower nel dicembre 2011 e febbraio 2012. Si tratta complessivamente di 1.018 miliardi, in scadenza tra gennaio e marzo 2015, di cui 800 miliardi sono già stati restituiti nel corso del tempo. Insomma, nel mercato non manca la liquidità dato che spesso viene restituita a Francoforte anche prima della scadenza. Quota tremila non potrà essere raggiunta nemmeno con gli acquisti a titolo definitivo di Covered Bond e Abs: negli ultimi quattro mesi la Bce ci ha messo 30 miliardi di euro, con un passo simile, senza considerare la dimensione relativamente ridotta dei due mercati, l’obiettivo sarebbe raggiunto dopo anni.

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Tempi non compatibili con il progressivo deterioramento, seppur a macchia di leopardo, della congiuntura economica. La Bce, proprio a dicembre, ha ridotto le previsioni sul Pil dell’Eurozona, quest’anno +0,8%, il prossimo +1%, nel 2016 +1,5%. Male anche il fronte dei prezzi al consumo, in odore di deflazione, tanto da consigliare un drastico taglio sulle previsioni di inflazione +0,5% quest’anno, +0,7% il prossimo, nel 2016 +1,3%. Un livello di prezzi lontano anni luce dall’obiettivo di stabilità dei prezzi nel medio termine, fissato dalla Bce intorno al 2%.

Un disallineamento che potrebbe alimentare una caduta dei pezzi se si consolidassero aspettative deflazionistiche capaci di alimentare la tesaurizzazione, rafforzare una trappola della liquidità già evidente nella caduta della domanda aggregata, in particolare degli investimenti, ed avvitare l’unione monetaria nella spirale della depressione. Un disallineamento che la Bce, parole di Draghi “non tollererebbe”, quindi l’espansione del bilancio dell’Eurotower verso quota tremila, potrebbe contemplare anche “l’acquisto di Titoli di stato” ritenuto “compatibile con il nostro mandato” in quanto al servizio della stabilità dei prezzi.

Parole in disaccordo con quelle di Jens Weidmann, presidente della Bundesbank e membro del Consiglio dei governatori della Bce, che nella scelta di comprare titoli di Stato vede il pericolo della mutualizzazione del rischio paese in capo alla Bce, una banca centrale che governa una unione monetaria priva di unione di bilancio, nonché di unione politica.

Draghi ha preso tempo “rivaluteremo la situazione in gennaio”, la riunione del Consiglio è prevista per il 22, precisando che ciò non significa che si passerà all’azione a gennaio. Proprio la riunione del 22 sarà la prima di cui, un mese dopo, verranno pubblicati i resoconti, inaugurando una innovazione positiva nella comunicazione di Francoforte. Lo fa già la Federal Reserve, l’unica differenza riguarda l’attribuzione delle posizioni espresse: esplicita, con nome e cognome, nei resoconti della Fed, inespressa nei resoconti della Bce. Ma lì a Washington sono quasi tutti americani. A Francoforte, invece, si confrontano governatori di differenti paesi e la scelta di non rendere esplicite le loro opinioni, comprensibile per non scatenare strumentalizzazioni politiche o nazionalistiche, rischia di alimentare la caccia alle opinioni da attribuire ai vari membri del Consiglio della Bce, tra immancabili indiscrezioni. Per Draghi ci sono “sufficienti prove” sull’efficacia delle nuove misure da avviare e la decisione sarà presa a maggioranza.

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Insomma se passerà la manovra a base di titoli di Stato, la Bundesbank dovrà farsene una ragione. I lavori sono in corso. Per evitare contestazioni di infrazioni al Trattato Ue, come un surrettizio finanziamento dei debiti pubblici dei singoli stati dell’Eurozona, si starebbe cercando di spostare il rischio di credito, che sorge quando si compra un titolo di Stato, dalla Bce alle banche centrali nazionali. Sarebbero queste ultime a fare lo shopping, in modo che eventuali perdite siano poi ripianate dagli Stati nazionali. Una soluzione, se passasse, figlia di una unione monetaria che raccoglie 18 paesi ma non ha un garante.

Finora l’abilità comunicativa di Draghi fondata sull’attesa di un pioggia di euro da sganciare in cambio di titoli, sul tasso di politica monetaria allo 0,05% c’è poco da raschiare, ha giovato alla moneta unica che si è indebolita sul dollaro. Il dividendo è tutto nelle esportazioni “made in euro”, la parte corrente della bilancia dei pagamenti dell’Eurozona viaggia con un avanzo pari al 2,5% del Pil. Con gli annunci di imminenti azioni sempre più incisive, il mercato, prima o poi, potrebbe mettere alla prova le intenzioni della Bce e le sue capacità di fuoco.

Per Francoforte l’arma dei titoli di Stato, seppur fonte di disaccordo, rappresenta una sorta di capolinea della politica monetaria, l’ultima spinta dal lato dell’offerta. Negli Usa la Federal Riserve ha già giocato questa carta, il suo bilancio è salito fino a sfiorare quattromila miliardi di dollari ma la sua politica è stata accompagnata, dal lato della domanda, con una manovra di bilancio pubblico altrettanto espansiva che ha fatto salire il disavanzo federale oltre il 10% del Pil. L’economia Usa cresce ora del 5% all’anno, disoccupazione al 5,8%.

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Nell’Eurozona, che cresce di zero virgola all’anno e 11,5,% di disoccupati, l’azione della Bce si regge invece solo su una gamba, la propria. Non può contare, dal lato della domanda, sull’apporto della finanza pubblica vincolata ai parametri europei sui limiti di deficit e debito pubblico. Se la ricetta non dovesse funzionare, la palla sarà sempre più nel campo della politica europea. Dal lato della domanda, qualche spiraglio si è aperto con il piano Juncker che prevede investimenti pluriennali per oltre 300 miliardi, in gran parte finanziati da capitali privati.

Piano ritenuto quantitativamente modesto, circa il 2,5% del Pil dell’Unione europea. Si tratta comunque di una piccola correzione rispetto a una filosofia economica finora sinceramente convinta, come lo era l’economista francese Jean-Baptiste Say (1767-1832), che “l’offerta crea sempre la propria domanda”.

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