Biden al Pentagono: una nuova strategia per la Difesa Usa

Biden al Pentagono: una nuova strategia per la Difesa Usa
Il Pentagono, l'edificio sede del quartier generale del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti d'America
11 febbraio 2021

‘America is back. Diplomacy is back’. Appena pochi giorni fa, in occasione della sua prima visita al dipartimento di Stato, Joe Biden ha dettato la linea. Ma a prendere nota non sono stati solo i vertici della diplomazia Usa. Anche al Pentagono hanno ascoltato con attenzione e raccolto il messaggio. Quello più esplicito e le sfumature più nascoste. ‘Ricostruire le alleanze, difendere la democrazia, in Patria e all’estero, lavorare per il rispetto dei diritti umani. Affrontare la sfida del cambiamento climatico’. Così, quando oggi il dipartimento della Difesa ha aperto le sue porte al comandante in capo, non si è trovato impreparato. Biden ha avuto una serie di incontri con leader militari e civili, poi ha rivolto un discorso al personale. Se la diplomazia dovrà disegnare i contorni dei nuovi scenari all’estero, o rafforzare il tratto di antiche e solide alleanze, la Difesa – almeno nella prima fase del suo mandato alla Casa Bianca – dovrà concentrarsi su almeno un paio di questioni interne.

La ‘confusionaria’ e – secondo alcune gole profonde del Pentagono – ‘scriteriata’ gestione di Donald Trump impone una svolta. Pur senza grossi stravolgimenti nel loro impegno all’estero, gli sforzi delle forze armate dovranno concentrarsi soprattutto sulla minaccia posta dagli estremisti di destra e dai suprematisti bianchi sul territorio nazionale. E, prima ancora, su quello che è stato individuato in questa fase come il nemico principale degli Stati Uniti, invisibile e letale come solo un virus sa essere: il Covid-19. Lloyd Austin, ex generale a quattro stelle dell’esercito Usa e primo afroamericano alla guida della Difesa statunitense, lo ha già ben chiaro e sin dal primo giorno sta trattando questo dossier come una priorità assoluta. Una priorità di Sicurezza nazionale. Forse anche per allontanare le critiche sul presunto indebolimento del principio del controllo civile sui militari, a seguito della sua nomina, Austin si è mosso rapidamente per circondarsi di assistenti senza divisa: tra tutti, Kelly Magsamen, suo braccio destro, e la vice segretaria Kathleen Hicks, proprio ieri confermata dal Senato come prima donna a ricoprire questo incarico.

Appena messo piede al Pentagono, poi, Austin ha chiarito quale fosse la principale delle sue priorità: l’impegno ‘civile’ delle forze Usa, al fianco del governo, per ‘spingersi oltre e più velocemente’ nella lotta alla pandemia di coronavirus. Non è un caso, dunque, che agli oltre 24.000 membri della Guardia Nazionale impegnati nel supporto logistico al programma di vaccinazione statunitense, si aggiungeranno in questi giorni più di 1.100 soldati. L’Agenzia federale per la gestione delle emergenze (Fema) – che auspicherebbe un impiego fino a 10.000 militari in 100 centri – li ha espressamente chiesti al Pentagono per dislocarli in cinque diversi centri di vaccinazione. Li avrà, e presto. D’altra parte, lo stesso Biden sosterrà oggi questa soluzione e nelle private stanze del Pentagono dirà anche che occorre fare in fretta, secondo fonti di stampa locale. Una prima squadra di circa 22 membri si sta già preparando a prendere servizio in un centro di vaccinazione della California. Altri quattro team simili, riferisce l’Associated Press, prenderanno posto in altrettanti centri analoghi, non appena la Fema sarà pronta e darà il via libera.

Uno sforzo che arriva mentre crescono le preoccupazioni sulla presenza di frange estremiste nei ranghi dell’esercito. È ancora molto vivo e doloroso il ricordo dell’assalto del 6 gennaio scorso al Campidoglio di Washington da parte di centinaia di sostenitori di Trump, tra cui diversi veterani. Da allora, autorità competenti, vertici militari ed Fbi hanno scavato sul passato di molti militari, per verificare eventuali legami con gruppi di rivoltosi. E ai critici che sostengono che la nuova attenzione sull’estremismo interno nasconderebbe di fatto uno sforzo per sradicare i membri più conservatori dell’esercito, il portavoce del Pentagono John Kirby ha opposto una netta smentita. È un’accusa ‘assolutamente infondata e falsa’, ha detto. Ma gli eventi del 6 gennaio hanno evidenziato la necessità di apportare degli aggiustamenti. ‘Non si tratta di politica. Non si tratta di ciò in cui si crede. Ma di come ci si comporta sulla base di quste convinzioni’, ha precisato. Resta il fatto che l’emergenza estremismo interno, individuata da Biden e fatta propria da Austin, è tutt’altro che finita. Mentre grande attenzione è riservata anche al possibile emergere di nuove iniziative di esponenti di estrema destra contro le istituzioni. Per questa ragione circa 7.000 membri della Guardia Nazionale sono rimasti dispiegati nella capitale dopo le violenze, mentre Austin ha già manifestato la volontà di mantenere viva la missione di sicurezza attorno al Campidoglio.

Sul fronte estero, il Pentagono e il suo capo si stanno preparando già da giorni ad affrontare le altre priorità di Biden. Preoccupa, e non poco, la strategia da adottare contro le forze armate cinesi, sempre più moderne, attrezzate e assertive. La politica militare di Pechino ha finito per condizionare la strategia Usa anche nell’immediato. La possibile parziale revisione della presenza Usa in Africa e America Latina è stata sostanzialmente abbandonata sulla base dell’assunto che la Cina è ormai presente anche in queste regioni e quindi non sarebbe ragionevole ridurre un impegno. È in corso, invece, una valutazione dell’accordo di pace raggiunto dall’ex amministrazione di Donald Trump con i talebani in Afghanistan. L’intesa prevede che gli Stati Uniti ritirino tutte le proprie truppe dal Paese asiatico entro il prossimo mese di maggio. Un termine che però i vertici Usa stanno riconsiderando, in virtù di quella che il capo della diplomazia Antony Blinken considera una mancata adesione della controparte agli impegni assunti. Troppe violenze sono in corso nel Paese, e molte di queste sono attribuibili agli ‘Studenti del Corano’, secondo Washington.

Ma la rassegna del dispiegamento all’estero delle forze armate americane non si limita naturalmente al solo Afghanistan. Annunciando la sua ‘revisione della posizione delle forze globali’ la scorsa settimana, Austin ha detto che l’impegno della Difesa sarà focalizzato su ‘talento, addestramento, innovazione, leadership, presenza avanzata e prontezza’. Il capo del Pentagono valuterà ‘l’impronta, le risorse, la strategia e le missioni’ militari. Così ritiri e ridimensionamenti sono previsti anche in Siria e Iraq, ma non in Germania, dove la presenza dei circa 34.500 militari americani è stata confermata, rovesciando una decisione assunta dall’amministrazione Trump. Un’altra prova d’immediata discontinuità sarà fornita dalla fine del sostegno alle operazioni offensive dell’Arabia Saudita nel conflitto in Yemen. Una prima testimonianza, a tal proposito, è arrivata dallo stop alla vendita di armi ‘rilevanti’ a Riad. Per Biden, questa guerra ‘ha creato una catastrofe umanitaria e strategica’ e ‘deve finire’. La decisione di sottrarre gli Houthi (sostenuti dalla Repubblica islamica d’Iran) dalla lista Usa dei movimenti terroristici va in questa direzione. Anche se, secondo alcuni analisti, le ragioni di fondo sarebbero altre. E in primis, il tentativo di convincere il regno saudita ad accelerare il riconoscimento di Israele e a entrare a pieno titolo nel Patto di Abramo.

In ogni caso, il primo banco di prova all’estero della nuova Difesa Usa sarà la prossima ministeriale della Nato, prevista a Bruxelles il 17 e il 18 febbraio. Segnerà l’esordio di Austin. Prevedibile, che gli Stati Uniti torneranno a chiedere un maggiore impegno degli Alleati in termini economici, quel 2% sul Pil destinato al budget della Difesa rimasto una chimera per molti Paesi, quasi tutti. Ma in cima all’agenda c’è l’Afghanistan. E allora non è difficile immaginare che in questa occasione il capo del Pentagono dovrà fornire qualche certezza in più. Il ritiro della missione Nato ‘Resolute Support’ resta per ora condizionato al prosieguo dei negoziati con i talebani e al raggiungimento di sicurezza e stabilità nel Paese. Ma in caso di conferma, non può prescindere da un impegno cospicuo del personale militare Usa. Austin ha promesso un coordinamento su ogni ulteriore mossa. Gli Alleati ci contano.

Segui ilfogliettone.it su facebook
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Se avete correzioni, suggerimenti o commenti scrivete a redazione@ilfogliettone.it


Commenti