Fioccarono quindi una serie di ipotesi, tra cui quella particolarmente seducente sui media del “fat finger”, (dito cicciotto, letteralmente), secondo cui qualche incauto operatore avrebbe effettuato un ordine per miliardi invece che per milioni, appunto per goffaggine (magari determinata dall’ampio diametro delle sue falangi). In realtà la spiegazione dell’accaduto risiedeva almeno in parte nel crescente utilizzo di meccanismi automatici di trading ad alta frequenza e di tipologie di prodotti (Etf) che si prestavano particolarmente a accentuare la volatilità. Le autorità hanno adottato contromisure che servono ad evitare l’autoalimentarsi di fenomeni di questo tipo. Peraltro ci sono voluti anni per completare le ricostruzioni, fino a trascinarsi in pieno 2015 quando uno sconosciuto trader britannico è stato arrestato con l’accusa di manipolazioni che avrebbero favorito il crollo di cinque anni prima. Anche sulla sterlina, nelle prime ore si sono riviste le ipotesi che avevano circondato il “flash crash” del 2010. Si è infatti parlato di algoritmi che avrebbero reagito al succedersi di notizie negative – prima gli annunci della premier britannica Theresa May (foto) di avviare la procedura negoziale di uscita entro 6 mesi, scegliendo una linea dura, poi le risposte altrettanto energiche della cancelliera Angela Merkel e successivamente, indiscrezioni di stampa su una posizione intransigente anche del presidente francese Francois Hollande – innescando così vendite in massa con un effetto domino.
Interpellata sull’accaduto la Banca d’Inghilterra ha riferito di aver avviato verifiche. Il ministro del Finanze Philip Hammond ha imputato l’accaduto a fattori tecnici, ribadendo la previsione di prospettive altalenanti sui mercati (nei giorni scorsi aveva parlato di montagne russe) ma ribadendo anche la solidità dell’economia Gb. Il collasso comunque ha avuto una durata relativamente breve (come nel 2010), la sterlina ha ridotto buona parte delle perdite e in serata si attesta a 1,2436 dollari, un calo comunque pesante rispetto all’1,26 della fine della scorsa settimana. Il Pound è anche caduto sotto 1,10 euro per la prima volta dal 2010. Dal voto Brexit la valuta Gb ha accumulato un deperezzamento di oltre il 15 per cento. Il problema è che in questo caso, le seducenti ipotesi di algoritmi inefficienti o grossolani errori di trading nascondono quella che forse è una realtà anche più allarmante. “Non è irragionevole attribuire la caduta ad alcuni investitori che hanno iniziato a rivedere le loro posizioni, in quanto speravano in una Brexit morbida”, ha rilevato Paul Meggyesi, analista di JPMorgan citato dal Financial Times. E David Bloom di Hsbc conferma la previsione di un calo a 1,20 dollari entro fine anno e 1,10 entro fine 2017. Brutte notizie per tutti coloro che hanno investimenti denominati in sterline. Non a caso oggi si è assistito ad una parallela ondata di vendite sui Gilt Al 10 anni, i cui rendimenti sono schizzati sopra l’1 per cento per la prima volta da giugno. Il flash crash insomma potrebbe nascondere una dinamica di fondo che inesorabilmente spingerà sempre più al ribasso la valuta del Regno, mettendo sotto pressione Londra nelle sue ambizioni di riconquista di sovranità rispetto all’Unione europea.