I dirigenti pubblici italiani attendono al varco il governo sulla riforma che, ad avviso di molti di loro, li mette in una posizione di estrema dipendenza dal potere politico. Se il testo non cambierà così come hanno consigliato al governo due commissioni parlamentari, il Consiglio di Stato e la Conferenza unificata, l’appuntamento è il 4 dicembre, davanti alle urne per il referendum dove il loro dissenso potrebbe concretizzarsi in una sonora bocciatura delle nuova Costituzione. Nei scorsi giorni è, infatti, arrivato il parere della commissione Affari Costituzionali del Senato sul decreto Madia che cambia le regole di gestione per circa 30 mila manager pubblici. I senatori hanno dato via libera al testo condizionandolo, però, alle modifiche di alcuni punti. In gran parte quelli che gli stessi dirigenti avevano segnalato nelle audizioni. Ora la palla passa al governo che, per rispetto istituzionale, dovrebbe accettare i consigli del Parlamento. Anche se non essendo vincolanti Renzi potrebbe andare dritto per la sua strada. I dirigenti sono pronti però a fare sentire la loro voce.
“Ci aspettiamo che il testo definitivo della riforma abbia la massima adesione ai pareri espressi dalle commissioni parlamentari, dal Consiglio di Stato e dalla Commissione unificata” spiega a il Tempo, Bernadette Veca, direttore generale del Mit (Ministero delle Infrastrutture) e membro del Comitato dei dirigenti pubblici per la difesa degli articoli 97 e 98 della Costituzione che lancia l’alert: “Il tempo massimo per approvare la normativa da parte dell’esecutivo è la fine di novembre”. E il 4 dicembre c’è il voto referendario”. Insomma il fronte dei grandi dirigenti pubblici è abbastanza caldo. I tempi sono stretti e nessun passo formale è stato fatto da parte del ministro Madia per accogliere le loro richieste di modifica. “Che sono le stesse accolte dagli organismi parlamentari” aggiunge la Veca. E nel parere della commissione i punti in “collisione” con le norme costituzionali sono diversi. Innanzitutto è stato ribadito che il governo deve indicare le risorse economiche per l’applicazione della riforma. Riconoscendo, come sostenuto dal comitato dei dirigenti, che la stessa a differenza di quanto sostenuto dal governo non è a costo zero ma implica una spesa che va necessariamente messa in conto nel bilancio pubblico. Non solo.
A entrare nel mirino dei senatori anche la commissione di valutazione, e cioé di quell’organo che deve assegnare gli incarichi ai dirigenti che concludono il mandato quadriennale. Ebbene la sua composizione cosi come disegnata nel decreto Madia, non rispetterebbe i principi espressi nelle delega data al governo, che prevedono che ai membri designati dall’esecutivo ne siano affiancati altri, più numerosi, scelti con una selezione pubblica. Oggetto di richiamo anche la riserva di posti a disposizione dei dirigenti di prima fascia (che attualmente hanno maggiori responsabilità) nelle future selezioni. Una percentuale (il 30%) troppo bassa e che ad avviso della Commissione lederebbe le loro professionalità. Non solo. I rischi di impugnazione possono derivare anche dalla norma che precisa che uno dei motivi per non confermare i dirigenti pubblici nel ruolo, e dunque dopo due anni di inattività la possibilità di metterli alla porta, è il mancato raggiungimento degli obiettivi assegnati. Una direttiva che lascia troppo arbitrio e discrezionalità al potere politico. Dunque i cosiddetti target dovrebbero essere specificati e dettagliati per evitare abusi. Insomma di cose da correggere ce ne sono. I dirigenti pubblici lo hanno detto da tempo. Ma non sono stati mai chiamati a condividere l’impostazione del provvedimento. Attendono ancora. Poi l’appuntamento sarà nell’urna elettorale.