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A Bruxelles il primo vertice del dopo Brexit, addio a Cameron. L’incertezza penalizza l’Ue

La prima giornata dell’ultimo Consiglio europeo di Bruxelles per il premier britannico dimissionario David Cameron, e primo della nuova era dei “Ventisette più uno”, dopo il referendum sulla Brexit, si è conclusa ieri notte attorno alle 23, dopo una cena di lavoro certo non scevra di tensioni e recriminazioni, ma comunque rispettosa e cortese (“polite”, in inglese) come si conviene per dei capi di Stato e di governo, e mentre continuavano ad arrivare le tragiche notizie dell’attentato terroristico all’aeroporto Ataturk di Istanbul. Il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, ha aperto la conferenza stampa al termine della cena di lavoro, ieri notte, con le condoglianze per le vittime di quest’ennesimo attentato, sottolineando che “in tempi come questi dovremmo essere uniti”. Le procedure del divorzio, ormai inevitabile, fra il Regno Unito e il resto dell’Ue, non hanno potuto essere avviate perché Cameron, come aveva annunciato, non ha notificato l’intenzione di recesso di Londra dall’Unione, un compito che ha lasciato al suo successore, chiunque sarà. La notifica attiva l’Articolo 50 del Trattato Ue, dando inizio a negoziati per il divorzio “ordinato” del Regno Unito che devono comunque concludersi entro due anni al massimo. Ed è proprio questo meccanismo a orologeria che i britannici non vogliono ora mettere in moto, prima che vi sia un nuovo governo con un piano preciso per il futuro del Regno Unito fuori dall’Unione.

La scelta temporeggiatrice di Cameron è stata criticata da una parte degli altri Stati membri (non da tutti e non particolarmente dal presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk), e soprattutto dalla Commissione europea e dall’Europarlamento, per la situazione d’incertezza che crea sui mercati e le sue conseguenze economiche pagate, per colpa dei britannici, da tutta l’Unione; ma alla fine considerata politicamente accettabile, se questo costoso “limbo” non durerà troppo a lungo, ovvero non oltre pochi giorni dopo la nomina del successore di Cameron. Già qui, tuttavia, le cose si complicano e diventano ambigue: il Partito conservatore britannico terrà il suo congresso all’inizio di settembre, ma è molto probabile (e politicamente opportuno) che vi siano anche nuove elezioni politiche, visto lo sconvolgimento che la vittoria della Brexit ha provocato nel Paese. Quindi bisognerà aspettare ancora l’autunno inoltrato, e già si parla della fine dell’anno, per avere un nuovo primo ministro, eletto dal popolo (e non da un partito) che dia inizio alle procedure di divorzio dall”Ue e ai negoziati per le relazioni future con i Ventisette. “Starà al prossimo primo ministro prendere la decisione di attivare l’articolo 50. E noi vogliamo che lo faccia entro due settimane, se viene dal campo del ‘Remain’, e che lo faccia il giorno stesso della sua nomina, se viene dal campo del ‘Leave'”, ha detto il presidente della Commissione europea, Jean-Claude Juncker durante la conferenza stampa ieri notte.

In altre parole, può essere comprensibile che Cameron, e chi come lui ha lavorato per restare nell’Ue e credeva nella vittoria del “Remain”, non avessero un piano preciso per organizzare la Brexit e affrontare le sue conseguenze; ma è inaccettabile che chi invece ha fatto campagna per il “Leave” non sappia ora cosa fare e chieda ancora tempo, come se non fosse preparato e non si volesse assumere la responsabilità di far fronte alla situazione creata dalla propria vittoria. A conferma della linea più morbida di buona parte degli Stati membri verso Londra, Tusk ha osservato che “secondo i Trattato Ue, è il Regno Unito che ha dato inizio a questo processo, e se ha bisogno di più tempo bisognerà aspettare: è l’unica via legale che abbiamo a disposizione oggi”, ha ricordato, mentre il premier olandese Mark Rutte (presente alla conferenza stampa in quanto il suo governo ha esercitato la presidenza di turno del Consiglio Ue in questo semestre) commentava: “Sono d’accordo, assolutamente”. Non è un mistero che vi sia, dietro le quinte, una competizione in corso fra Tusk e Juncker, ovvero fra l’approccio intergovernativo e quello comunitario, per decidere chi dovrà gestire in prima persona i negoziati con il Regno Unito, quando finalmente Londra deciderà di avviarli. Ai britannici farebbe molto più comodo avere a che fare direttamente con gli Stati membri dell’Ue, e in particolare con quelli più influenti (a cominciare dalla Germania) che non con la Commissione. Gli Stati sono molti più attenti ai propri interessi nazionali che non l’interesse generale dell’Unione, con l’attenzione che solo la Commissione, come guardiana dei Trattati, ha verso la legalità comunitaria. Di qui gli attacchi a Juncker, di cui da più parti si chiedono le dimissioni, come se fosse stato lui a volere il disastroso referendum britannico.

C’è, infine, la polemica che Cameron ha innescato per giustificare la propria sconfitta: durante la sua conferenza stampa finale, ieri notte, ha attribuito all’Ue la colpa della vittoria del “Leave” al referendum, affermando che è stata determinata dall’incapacità dell’Unione a gestire la crisi migratoria. Dura la risposta di Juncker: “Non credo che questo sia vero: se per anni, per decenni hai detto ai tuoi cittadini che l’Ue è sbagliata e troppo burocratica e tecnocratica, poi non puoi sorprenderti del fatto che i cittadini alla fine ti credano”, ha detto rispondendo ai giornalisti che gli riferivano ciò che il premier aveva detto poco prima alla stampa. “Se accusi Bruxelles giorno dopo giorno, dalla mattina alla sera, se consideri che nell’Ue comandano i burocrati non eletti della Commissione europea, poi che cosa ti aspetti? Comunque – ha concluso amaramente Juncker – la mia amicizia con Cameron resterà; è la sola cosa che resta”. Tusk, da parte sua, ha concluso con una domanda retorica: “Ho sentito che (i britannici, ndr) danno la colpa a Schengen, alla libera circolazione delle persone, e poi al negoziato permanente fra noi, alla logica del compromesso. Ma senza queste cose, che cosa resta dell’Unione europea?”. Il vertice continua oggi, con la prima riunione informale dei capi di Stato e di governo dei Ventisette, senza il Regno Unito, che discuterà del futuro dell’Unione dopo il divorzio da Londra e cercherà di varare già una “roadmap” di iniziative da prendere in prospettiva per rafforzare l’integrazione europea in diversi settori e riconquistare il consenso dei cittadini europei.

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redazione