Sei anni fa veniva arrestata Manning, l’analista dell’esercito americano di Wikileaks
INFORMAZIONE E TRASPARENZA Chelsea fu arrestata in una base militare vicino a Baghdad, subendo la più severa punizione per un ‘whistleblower’
Sei anni fa, il suo arresto rappresentò un momento indelebile nella battaglia per l’informazione e la trasparenza: il 27 maggio 2010, finì in carcere Chelsea Manning (allora Bradley Manning, prima di affrontare la transizione verso il sesso femminile), analista dell’esercito statunitense che consegnò a Julian Assange, che poi li pubblicò su WikiLeaks, decine di migliaia di documenti riservati, e per questo accusata di reati contro la sicurezza nazionale. Manning, 28 anni, fu arrestata in una base militare vicino a Baghdad, in Iraq, e da allora è detenuta in carcere; i sei anni trascorsi in prigione rappresentano già la più severa punizione per un ‘whistleblower’, un informatore, ma dovrà passare altri 29 anni in prigione, visto che nel 2013 è stata condannata a 35 anni di carcere per spionaggio da una corte marziale. Pochi giorni fa, Manning ha fatto ricorso in appello, chiedendo che la sua pena sia ridotta a dieci anni; condanna che sta scontando a Fort Leavenworth, in Kansas.
Le associazioni per i diritti umani hanno più volte denunciato le condizioni disumane in cui fu a lungo detenuta, prima del processo: per mesi, fu costretta a 23 ore al giorno in isolamento, denudata per lunghi periodi e costretta a rispondere all’appello delle guardie ogni cinque minuti, ventiquattro ore su ventiquattro. In occasione del sesto anniversario, Manning ha pubblicato un post su Medium, in cui ha scritto: “Una cosa rimane chiara: è importante leggere tutto, assorbire tutto, essere il proprio filtro per le informazioni, cercare le proprie risposte alle domande. Se contiamo sugli altri affinché selezionino le informazioni per noi, non potremo dire di aver veramente capito perché abbiamo fatto quello che abbiamo fatto e dove andremo. Non potremo capire il mondo con le informazioni filtrate da una lente”. “Questo appello (contro la sua condanna, ndr) riguarda più della mia persona, riguarda lo spaventoso precedente per chi in futuro dirà la verità, per gli informatori, per i giornalisti. Riguarda la libertà di parola e la libertà di stampa. Riguarda il vostro diritto a conoscere la verità, ad avere accesso alle informazioni necessarie per permetterci, come società, di prendere decisioni consapevoli”.