Alla Biennale del 2017 aveva curato, raccogliendo consensi, il Padiglione Italia, ora Cecilia Alemani è stata chiamata dal presidente Baratta, con forse il suo ultimo grande atto alla guida dell’istituzione veneziana, a dirigere tutta la prossima Biennale d’arte nel 2021. Si tratta della prima donna italiana cui viene affidato questo ruolo, quattro anni dopo la francese Christine Macel e otto anni dopo Massimiliano Gioni, marito di Alemani. La scelta appare in linea con la visione di Baratta e con le ricerche portate avanti nelle ultime Biennali; rappresenta certamente uno scarto di genere importante per la scena italiana, ma quello che oggi sembra lecito aspettarsi è soprattutto uno scarto di approccio: Cecilia Alemani nel 2017 ha radicalmente cambiato l’idea del padiglione italiano, abbattendo il numero di artisti invitati (da una media di oltre dieci a soli tre) offrendo così uno spazio di ricerca più ampio, una impostazione da vera mostra personale, andando a coinvolgere tutta l’architettura del padiglione, complessa e vastissima. Un progetto che ha allineato l’Italia a quanto accade negli altri padiglioni nazionali e ha accantonato l’idea, adesso del tutto improponibile e inutile, di dover rappresentare in Biennale una fotografia dell’intero movimento italiano.
Con, inoltre, una richiesta esplicita agli artisti, che, in un’intervista con askanews del gennaio di tre anni fa, la curatrice ci aveva riassunto così: “Per me è stato importante invitare gli artisti nel contesto di Padiglione Italia a presentare intanto un lavoro nuovissimo e non più semplicemente a prendere a prestito opere precedenti. Poi a cercare di spingere la loro produzione perché fosse il lavoro più bello e, in un certo senso, più ambizioso della loro carriera”. Provate a immaginare cosa potrebbe succedere se questa idea venisse, in qualche modo, applicata all’intera Biennale di Cecilia Alemani. E a questo potete aggiungere anche che, come capo curatore dei progetti d’arte per la High Line di New York, da anni lavora su uno spazio che è diventato iconico e che rappresenta un primo passo verso un nuovo modo della metropoli americana, patria del nostro stesso immaginario collettivo, di pensare se stessa in relazione a temi come l’ambiente, la comunità, il riutilizzo delle strutture industriali, il rapporto con la cultura. Il risultato di questa somma è probabile che sia una risposta necessaria di cambiamento a molti livelli, che vanno anche oltre la semplice dimensione artistica. Per questo la sfida della 59esima Biennale d’arte ci sembra particolarmente stimolante, per poter verificare in che modo lo stile così incisivo di Cecilia Alemani troverà la maniera di manifestarsi anche nel più ampio (verrebbe da dire “colossale”) lavoro di gestire quello che è uno dei due più importanti eventi di arte contemporanea al mondo.