Come si costruisce il profilo di una forza politica “né di destra né di sinistra”, che ha raccolto milioni di voti con la promessa di abbattere “i partiti” ma adesso deve presentarsi come partito di governo credibile? Il compito ricade sulle spalle di Luigi Di Maio, appena incoronato candidato premier del Movimento 5 stelle, che ha ripreso posto sul palco di Italia a 5 stelle, prima della chiusura anticipata della manifestazione (causa pioggia) sulle note di un blues affidato a un Beppe Grillo. L’ex fondatore appare ogni giorno più contento di aver ceduto lo scettro della guida della sua creatura politica e le non infrequenti rogne politico-legali che ne derivano. Nell’ultima giornata della kermesse Di Maio ha potuto archiviare il dissenso di Roberto Fico, il quale per ora resta a guardare anche se ha ribadito che non accetta la designazione del suo collega a leader: “Il candidato premier è il capo della forza politica, ovvero riferito alla legge elettorale Italicum, e non capo della vita politica generale a tutti i livelli del Movimento 5 stelle. Questa è una grande distinzione”, ha precisato. Leader, capo o semplice “portavoce del programma”, come vorrebbe l’ortodossia dei 5 stelle, Di Maio (che domani dovrebbe incontrare degli imprenditori a Milano) qualche segnale lo ha lanciato, nel corso dell’intervista “social” in stile Renzi, #ChiediloaLuigi, ultimo atto politico della festa riminese. Promettendo semplificazione degli adempimenti e della burocrazia, ha detto che “la prima cosa che dobbiamo fare per le imprese è lasciarle in pace”, un messaggio che riecheggia certi toni del Berlusconi della “rivoluzione liberale”. Poi ha parlato di fisco, promettendo di abbassare le tasse “con i soldi sottratti alla corruzione” da destinare “agli imprenditori onesti”.
Ha anche disegnato il profilo degli imprenditori ai quali vorrebbe rivolgersi, almeno sul terreno degli impegni elettorali, promettendo una politica meno sensibile ai desiderata di Confindustria: “Se il 95 per cento delle piccole e medie imprese è sotto i dieci dipendenti possiamo permettere – si è chiesto – che si facciano a Bruxelles e a Roma sempre provvedimenti per chi ha più di cento dipendenti?”. E’ probabilmente alo stesso tipo di elettori che ha voluto ricordare che “stiamo sostenendo i referendum autonomisti di Lombardia e Veneto, per lasciare le risorse sul territorio che le produce a parte quello che serve per la solidarietà fra tutte le regioni”. Infine, ha toccato il tema del credito. “Quando le banche chiudono i rubinetti, le piccole imprese hanno bisogno di una banca pubblica per gli investimenti, è un principio sacrosanto di uno Stato innovatore”. Molto più vaghi, finora, i cenni sul lavoro. Ma il movimento è pur sempre la forza che in passato, attraverso il blog, promosse il Libro bianco sul lavoro nero, conquistando consensi nella generazione del precariato diffuso. Per questo Di Maio ieri aveva attaccato i voucher e i contratti a termine, e continua a citare il Jobs Act come esempio delle leggi “cattive” fatte in questi anni. Ai critici che gli rinfacciano incompetenza e giovane età, negandogli qualsiasi riconoscimento per il lavoro svolto da vicepresidente della Camera perennemente in bilico fra il suo gruppo di rumorosa opposizione e il ruolo istituzionale, ha risposto senza paura: “Non è il futuro dei giovani ma il presente”.
Fedele al suo profilo di “moderato”, ha evitato di associarsi agli attacchi continui che Beppe Grillo ha reiterato in questi giorni contro i giornalisti, scaldando gli animi degli attivisti presenti a Rimini, in più di una occasione aggressivi fino al limite dello scontro fisico con gli operatori dell’informazione. Sul terreno dell’attualità politica, Di Maio ha rilanciato la minaccia di una guerriglia parlamentare contro una legge elettorale, il Rosatellum bis, costruita “per impedirci di governare”. Ma la prova più difficile da superare, e Di Maio lo sa bene, è quella dell’immigrazione. Sulla quale è andato coi piedi di piombo: “E’ un tema complesso, se stai nei tempi televisivi dimentichi sempre qualcosa e rischi di essere sbilanciato da un lato o dall’altro”, si è giustificato. Poi, strizzando l’occhio alla sinistra antirazzista, ha rispolverato lo slogan di Vittorio Arrigoni, italiano assassinato a Gaza nel 2011: “Restiamo umani”, ha detto il candidato premier del M5S, di fatto proponendo la stessa ricetta di Matteo Renzi: se l’Ue non accetta di cambiare il regolamento di Dublino e ci lascia l’onere dell’accoglienza per intero, “tratterremo una parte di quei venti miliardi che diamo annualmente all’Ue”. L’euro? Il referendum per “far decidere ai cittadini” se uscire o meno dalla moneta unica? A Rimini non pervenuto, è una delle tracce più sbiadite del M5S delle origini.