di Enzo Marino
La Commissione europea, e in particolare il suo presidente Jean-Claude Juncker, sono sotto attacco: trattati con disprezzo dai britannici come “burocrati non eletti”, e accusati dal governo di Londra di non aver fatto concessioni più significative sullo “statuto speciale” del Regno Unito nell’Ue (come se il referendum sulla Brexit l’avesse voluto, e perduto, lo stesso Juncker, e non il premier britannico David Cameron); e criticati dai paesi dell’Est del gruppo di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica ceca e Slovacchia) che chiedono esplicitamente, a partire dalle politiche dell’immigrazione e asilo, il ritorno ai governi di molte competenze dell’Unione, il ripristino del diritto di veto degli Stati membri, e la sostituzione del “metodo comunitario” con l’inefficace e paralizzante cooperazione intergovernativa. A questo si aggiungono le domande che ormai sistematicamente qualche giornalista continua a fare, nelle sale stampa delle istituzioni comunitarie, sullo stato di salute di Juncker e sulle sue eventuali intenzioni di dimettersi, come da diverse parti gli viene chiesto. A quanto è sembrato durante lo scorso week-end, persino il governo dello Stato membro e fondatore più importante, la Germania, si sarebbe unito al coro dei detrattori della Commissione e dei nemici del suo presidente. La cancelliera Angela Merkel, secondo il Sunday Times del 3 luglio – che citava, senza identificarlo, quanto riferito da un ministro del governo tedesco – sarebbe stata molto scontenta del modo in cui Juncker ha reagito al referendum britannico, e contraria ad affidare alla Commissione il negoziato sulle condizioni del divorzio dal Regno Unito. La pressione per costringerlo alle dimissioni, “crescerà sempre di più, e alla fine la cancelliera dovrà occuparsene l’anno prossimo”, affermava la fonte citata.
Ma lunedì scorso il portavoce di Merkel, Steffen Seibert, ha difeso il presidente della Commissione, come aveva già fatto una settimana prima, commentando la richieste esplicita di dimissioni di Juncker da parte del ministro degli Esteri ceco Lubomir Zaoralek. Fra la cancelliera tedesca e il capo dell’Esecutivo comunitario, ha affermato Seibert, c’è una “buona e stretta cooperazione”, e Juncker “svolge un ruolo cruciale nel rispondere con successo alle sfide che l’Europa ha di fronte attualmente”. La stessa Merkel, inoltre, aveva avuto una lunga telefonata di chiarimento con il presidente della Commissione già domenica sera. E’ vero, tuttavia, che nel week-end successivo al venerdì della vittoria del “Leave”, il 24 giugno, Merkel aveva spiazzato e contraddetto il presidente della Commissione e quello del Parlamento europeo, Martin Schulz, dichiarando che bisognava dare ora più tempo ai britannici, lasciando che decidano di attivare il negoziato dopo l’estate. Inoltre, la cancelliera e il suo ministro delle Finanze, Wolfgang Schaeuble, in diversi interventi avevano preso posizione contro l’idea, propugnata da Juncker e Schulz, di approfittare dell’uscita di Londra per rilanciare con forza il progetto integrazionista per la “ever closer Union”, l’unione sempre più stretta prevista dai Trattati Ue.
E alla fine, effettivamente, i capi di Stato e di governo incontratisi al vertice di Bruixelles il 29 e 29 giugno hanno accettato di dover aspettare almeno fino all’autunno per l’attivazione dei negoziati con Londra, mentre sono apparsi profondamente divisi sull’idea di riprendere il cammino dell’integrazione comunitaria, e di rimettere mano ai Trattati Ue. Bisogna ricordare, inoltre, che Merkel non voleva Juncker alla guida della Commissione, che ha cercato di opporsi alla sua designazione come candidato del Ppe in caso di vittoria alle elezioni europee del maggio 2014, sostenendo al suo posto il francese Michel Barnier, e che dopo il successo del Ppe ha negato per diversi giorni di sentirsi legata da quel risultato, cedendo alla fine solo di fronte alle fortissime pressioni e critiche della stampa tedesca. Al centro degli attacchi, che mirano a indebolire e delegittimare la Commissione, c’è la controversia – fra “comunitari”, più duri e meno disposti a concessioni sostanziali nel futuro negoziato con i britannici, e “intergovernativi”, più pragmatici e spregiudicati – su chi debba ottenere la gestione e la guida dei negoziati per l’uscita “ordinata” del regno Unito dall’Ue, quando Londra si deciderà finalmente ad avviarlo, attivando l’articolo 50 del Trattato Ue con la notifica della “intenzione di recesso”. Proprio l’articolo 50 prevede che sia il Consiglio Ue (ovvero i governi) a nominare il team negoziale e la sua guida. La Commissione europea, forte di un parere in questo senso del proprio Servizio giuridico, considerava di avere pieno titolo per negoziare a nome dell’Ue, come fa in tutti i trattati commerciali con i paesi terzi. E il potente capo di gabinetto di Juncker, Martin Selmayr, secondo diverse fonti, si aspettava di vedersi conferire il ruolo di capo negoziatore. Ma il segretariato del Consiglio non era d’accordo, e poche ore dopo il referendum britannico ha creato – a quanto pare con l’appoggio tedesco – una “task force” tecnica sul negoziato per la Brexit, guidata dal diplomatico belga Didier Seeuws. Un vero e proprio tentativo di mettere la Commissione di fronte al fatto compiuto, con il rischio, fra l’altro, di contraddire il principio, poi accettato dai capi di Stato e di governo, di evitare qualunque negoziato informale con Londra prima che sia attivato l’articolo 50.
La reazione della Commissione, e in particolare di Selmayr, è stata inzialmente durissima, ma sembra ora che sia in vista un compromesso: già durante l’ultimo vertice Ue, e poi nelle ore scorse, durante la sessione plenaria del Parlamento europeo a Strasburgo, Juncker, Schulz e il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk si sarebbero messi d’accordo, in linea di principio, sull’idea di formare una “squadra mista”, composta di negoziatori appartenenti a tutte e tre le istituzioni, Commissione, Europarlamento e Consiglio. Ma c’è chi a Bruxelles teme che vi sia una strategia britannica, da parte di chi ha voluto la Brexit e ora non sa bene come gestirla, non solo per delegittimare la Commissione, ma per mandare per aria l’intera Unione, esasperando i conflitti fra gli Stati membri e fra le istituzioni europee e sostenendo le ragioni dei movimenti populisti ed euroscettici. Non è un mistero che proprio questo voglia, ad esempio, Nigel Farage, il leader dimissionario dell’Ukip (il Partito dell’Indipendenza del Regno Unito). Ma anche nel dibattito interno per la nuova leadership del Partito conservatore emergono posizioni anti-Ue sempre più spregiudicate e radicali. Intanto, il “sistema paese” del Regno Unito, facendo leva sulla egemonia culturale e linguistica di cui dispone sui mercati finanziari e nei media internazionali, sembra stare applicando una vera e propria strategia della distrazione, allontanando l’attenzione dalle conseguenze del Brexit sul proprio territorio per dirigerla e concentrarla altrove. Fanno impressione, a pochi giorni dal referendum, con la City sprofondata nell’incertezza e con il sistema politico e l’opinione pubblica britannici in preda alla confusione più totale, le aperture in prima pagina del Financial Times dedicate ai rischi delle banche italiane.