Ancora incerti gli equilibri nel Nord della Siria dopo l’intervento delle forze armate turche a Jarablus del 24 agosto scorso. L’operazione “Scudo dell’Eufrate”, avviata dall’esercito di Ankara per combattere lo Stato islamico (Isis) ma anche – e soprattutto – bloccare l’avanzata verso Ovest dei curdi delle Forze di unità popolare (YPG), è ancora in atto. La settimana scorsa la cittadina siriana al confine con la Turchia è stata liberata dai ribelli dell’Esercito libero siriano (ELS) supportati dalle forze turche e dagli Stati Uniti. L’ELS e il contingente militare turco hanno però continuato l’avanzata nei territori controllati dai curdi siriani. E da alcuni giorni i soldati turchi e i combattenti dell’ELS si stanno scontrando con gli uomini delle Forze democratiche siriane (FDS) guidata dallo YPG. Le unità di protezione popolare sono considerate da Ankara un braccio del PKK (Partito dei lavoratori del Kurdistan, considerata un’organizzazione terroristica dalla Turchia, dagli USA e dall’UE) e quindi una formazione “terroristica” al pari del PKK. Al contrario gli USA considerano invece lo YPG come il principale alleato sul campo nella lotta contro l’Isis. Di conseguenza la lotta avviata da Ankara per “ripulire dalla propria frontiera tutti gli elementi terroristici” va a scontrarsi con le sue stesse alleanze. Da una parte la Turchia, membro della Nato, fa parte della coalizione anti-Isis guidata dagli USA, dall’altra combatte contro un alleato degli USA impegnato nella lotta all’Isis. Ma Ankara è stata accusata in passato anche di fornire sostegno logistico all’Isis e tra gli stessi ribelli dell’ELS supportati dall’esecutivo turco risultano esserci membri di svariate organizzazioni jihadiste. Come scritto in una recente analisi apparsa sul New York Times, la situazione sembra ulteriormente complicata dal supporto che la CIA e le agenzie di intelligence alleate fornirebbero ai gruppi ribelli sostenuti da Ankara, mentre i miliziani guidati dai curdo-siriani opererebbero sotto l’ombrello del Pentagon nella lotta all’Isis.
Secondo diversi osservatori il cambiamento di rotta avviato negli ultimi mesi da Ankara in politica estera e in Siria sarebbe stato causa dei numerosi attentati attribuiti all’Isis in Turchia. Tuttavia le forze del governo turco risultano ancora concentrate a combattere prima di tutto i curdi – e il loro proposito di creare un corridoio al confine con la Turchia. Intanto le forze sostenute dalla Turchia avanzano verso Manbij – una cittadella situata a circa 30 chilometri a Sud del confine turco – che fino a poche settimane fa era in mano all’Isis, poi liberata dalle FDS che nel frattempo si sono ritirate a Sud del fiume Sajur. In settimana l’Osservatorio siriano per i diritti umani ha reso noto che colpi d’artiglieria turchi hanno ucciso una quarantina di civili mentre per Ankara sarebbero stati uccisi 25 “terroristi”. Ankara continua ad ammonire lo YPG che deve restare nella parte orientale del fiume Eufrate, accusandolo di cercare di ottenere sezioni di territorio siriano dove tradizionalmente non esiste un contingente curdo forte, nonchè – come recentemente affermato dal ministro degli Esteri turco Mevlut Cavusoglu – di fare pulizia etnica. Ma ad accentuare questo quadro estremamente complesso ci sono state anche numerose dichiarazioni contrastanti nei giorni scorsi. Da un canto sono giunte notizie di una “tregua” raggiunta tra lo YPG e la Turchia dopo l’intercessione degli USA, confermate sia a Washington dal Comando centrale (Centcom) Usa che da fonti curdo-siriane. Un accordo che in base a testimonianze apparse sulla stampa turca avrebbe previsto la formazione di una “zona cuscinetto” turca tra Jarablus e Azaz, mentre ai curdo-siriani si sarebbe data la possibilità di unire i cantoni di Afrin, Kobane e Jazira, dopo aver liberato Al-Bab dall’Isis. Tuttavia, Ankara, ha negato che fosse stato raggiunto alcun accordo. Omer Celik, ministro degli Affari UE, ha affermato oggi che Ankara “non accetta in nessuna circostanza un compromesso o un cessate il fuoco tra la Turchia e gli elementi curdi”.
Tuttavia l’operazione dell’esercito turco e dai suoi alleati – che non poteva realizzarsi a meno di ricevere il beneplacito delle parti attive in Siria, a partire da Mosca i cui rapporti con Ankara sono interessati da un graduale disgelo – sembra ora destare preoccupazione su più fronti. Oggi il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha chiamato il suo omologo turco per esprimere la sua preoccupazione riguardo all’intervento militare turco, menre Maria Zaharova, portavoce del ministero degli Esteri russo, ha sottolineato che la Turchia dovrebbe “evitare di attaccare tutti i gruppi etnici e gli oppositori che lottano contro l’Isis”. Allo stesso modo l’Iran, sullo stesso asse pro-Assad con la Russia, avrebbe chiesto alla Turchia di sospendere “rapidamente” le operazioni militari in Siria per non complicare ulteriormente la situazione nella regione. Un cambio di posizione è giunto anche dal regime di al-Assad, che inizialmente aveva espresso la necessità per la Turchia “di coordinare l’operazione con Damasco”, per poi accusarla di “commettere un crimine contro l’umanità” in una lettera indirizzata alle Nazioni Unite. Un appello a interrompere l’operazione è arrivato ieri anche dal presidente francese Francoise Hollande, mentre Washington ha definito “inaccettabili” gli attacchi alle milizie curdo-siriane. Sempre ieri dal Pentagono il generale Joseph Votel della Centcom ha ribadito la loro volontà nel vedere “tutti gli alleati e le forze a concentrarsi contro l’Isis”. Quanto queste raccomandazioni saranno seguite da Ankara rappresenta ancora un grande punto interrogativo. Ma che troverà senza dubbio nuovi sviluppi in occasione del prossimo G20 previsto per il 4-5 settembre a Hangzhou (Zheijiang) in Cina, dove il presidente Recep Tayyip Erdogan incontrerà i presidenti Barack Obama e Vladimir Putin.