Il conflitto in Ucraina, la crisi in Russia, le fibrillazioni nel mondo islamico: grandi problemi che tengono impegnati diplomatici e politici in tutto il mondo. Ma c’è una regione in cui queste crisi si sommano in un pentolone che rischia di esplodere. Si tratta dell’Asia centrale postsovietica, che paga il conto economico della crisi russa e che da tempo è sottoposta al “fallout” dell’instabilità afgano-pachistana e del jihadismo proveniente dal Caucaso settentrionale. In questa regione in bilico, si fanno sempre più concreti gli approcci di un attore importante: la Cina.
In quest’ultimo anno, caratterizzato dal violento conflitto ucraino, Nursultan Nazarbaiev, il padre-padrone del principale paese della regione, il Kazakistan, ha mostrato un insolito attivismo nel cercare di porsi come mediatore nella vicenda ucraina. Astana è membro dell’Unione doganale e alleato centrale nella nascente Unione economica euroasiatica: ha insomma legato a doppio filo il suo destino a quello della Russia. Nello stesso tempo è anche un partner importante dell’Occidente per le forniture d’energia. Ma i danni del conflitto, uniti al crollo del prezzo del barile e del valore del rublo, stanno provocando danni all’economia del paese, considerando che la quasi totalità dell’export kazako di prodotti energetici viene acquistata dalla Russia.
La crisi russa, comunque, si sta facendo sentire soprattutto nei paesi più fragili della regione: Kirghizistan e Tagikistan. Il crollo del rublo – secondo quanto ha scritto questa settimana l’Economist – sta pesando sulle rimesse degli emigrati che coprono, per il Kirghizistan, un terzo del Pil e, per il Tagikistan, quasi la metà. Anche per questo motivo, c’è chi paventa il rischio di un’ondata di ritorno di lavoratori dalla Russia: qualcosa come un quarto degli emigrati potrebbero rientrare nei paesi, producendo una massa ulteriore di disperati che potrebbero diventare terreno fertile per chi cerca destabilizzazione o cerca uomini da impegnare nelle attività jihadiste.
Nonostante questo effetto domino sulle economia centro-asiatiche della crisi russa, i paesi della regione non sembrano avere grandi alternative all’integrazione con Mosca, anche se ormai molti, nelle opinioni pubbliche di questi paesi, si chiedono quale sia l’interesse a procedere con l’Unione economica euroasiatica. “La gente è molto ansiosa sull’imminente integrazione. I nostri leader non riescono a spiegare quale sia il beneficio” ha spiegato Aktilek Tungatarov (foto), capo dell’International Business Council di Bishkek, all’Economist.
In posizioni un po’ più solide sono dati gli stati più stabili della regione: il Kazakistan e l’Uzbekistan. Merito della loro struttura più centralizzata, con leader solidamente insediati al potere, secondo il sito di geopolitica The Diplomat. Anche se pure loro devono stare molto attenti, per esempio, ai segnali di un redivivo islamismo politico soprattutto nella valle di Ferghana, che ospitava gruppi come il Movimento islamico dell’Uzbekistan. Una posizione a parte occupa il Turkmenistan, che ha come dottrina di politica estera la neutralità. Ashgabat da qualche tempo sta aprendosi decisamente a un’alternativa alla Russia. Negli anni scorsi ha avviato una maxi-fornitura di gas alla Cina, che è stata l’apripista a un nuovo rapporto della regione con la seconda economia del mondo. E da Pechino arrivano segnali chiari.
“Mentre i settori delle costruzione e dei servizi della Russia cominciano a recedere, le rimesse degli emigranti, il principale pilastro del Pil in Kirghizistan e Tagikistan, sono destinati a subire un calo considerevole” ha scritto qualche giorno fa il giornale ufficiale cinese Global Times. “Anche se alcuni di questi emigranti cercherà lavoro altrove, moltissimi torneranno a casa, incapaci di sostentare le proprie famiglie e molto propensi a orientare il loro scontento verso governi incompetenti”, ha continuato nell’analisi severa. “Tuttavia – ha proseguito – c’è una ragione di ottimismo nella regione e viene da Pechino”.
Xi Jinping, il presidente cinese, ha lanciato la sua politica della Nuova Via della Seta, che vede i paesi dell’Asia centrale come percorso necessario per raggiungere i mercati occidentali. Per questo, Pechino ha stanziato investimenti che sono già serviti a costruire la rete di gasdotti Asia centrale-Cina e a costruire progetti infrastrutturali, a partire dalle ferrovie. L’obiettivo di Pechino è anche quello di stabilizzare una regione, nella quale è coinvolta anche a causa dell’instabilità della sua provincia del Xinjiang dov’è latente la rivolta degli uiguri, minoranza musulmana turcofona. Ma questo attivismo potrebbe creare problemi alla Russia, oggi distratta dal conflitto con l’Occidente, ma domani probabilmente perplessa di fronte a una Cina sempre meno costretta nei suoi confini.