I combattenti curdi nella notte hanno strappato all’Isis una importante base militare nella provincia di Raqqa, ultima di una serie di conquiste messe a segno dalle Unità di difesa del popolo (YPG) ai danni degli uomini del Califfo Abu Bakr al Baghdadi, una campagna tutta sotto il segno del popolo curdo che – come teme la Turchia – potrebbe contribuire seriamente a ridisegnare le frontiere mediorientali. Non sarà cosa di settimane e mesi, e non è detto che i vari partiti, fazioni, gruppi curdi tra Iraq, Turchia, Siria e Iran possano un giorno concordare su un comune obiettivo statuale, ma la lotta contro lo Stato islamico ha riportato alla luce una questione rimasta in ombra per un secolo, quella di un popolo di 40 milioni di persone rimasto senza un territorio nazionale proprio, malgrado la promessa messa nera su bianco nel 1920 dal Trattato di Sèvres. Tre anni dopo, infatti, il sogno di uno Stato curdo veniva affondato da un accordo tra le potenze occidentali e la giovanissima Turchia kemalista. Oggi la Turchia di Recep Tayyip Erdogan si inquieta di fronte alla determinazione con cui i combattenti curdi lottano contro lo Stato islamico. Temono che dietro la macchina “partigiana” delle YPG ci sia il nulla osta degli Stati Uniti, che assistono gli attacchi curdi come forza guida della coalizione internazionale anti-Isis e che non possono ignorare le aspirazioni del “popolo senza uno Stato”. Ankara, rivela oggi il quotidiano turco Hurriyet, ha ammonito gli Usa e le maggiori cancellerie occidentali sulle “linee rosse” da non varcare alla luce dell’avanzata delle forze curde nel Nord della Siria, ribadendo in sostanza che non ci possono essere revisioni di confini o assetti territoriali che mirino alla creazione di uno Stato curdo autonomo.
Hurriyet ha ottenuto alcuni stralci di un documento che illustra la policy della Turchia su questo argomento, particolarmente delicato per il Paese anatolico già nel mirino delle critiche internazionali per il mancato sostegno alle forze curde durante i drammatici mesi dell’assedio di Kobane. Il documento sarebbe stato approvato dal presidente Recep Tayyip Erdogan e inoltrato a una serie di governi occidentali, quello americano in primis. Una delle preoccupazioni della Turchia, messa nero su bianco nel paper in questione, è la possibilità che vi siano stravolgimenti a livello demografico sul versante siriano, con una rinnovata concentrazione di curdi dall’altra parte della sua frontiera sud-orientale, dove tra Siria e Iraq la popolazione curda può contare ancora su una certa continuità territoriale, pericolosissima agli occhi di Ankara. “Nessuno può agire perseguendo i propri specifici interessi solo perchè combatte contro lo Stato islamico e la struttura demografica della regione non può venire modificata con un processo presentato come fatto compiuto”, cita il documento. Insomma, Erdogan teme che gli uomini delle unità YPG stiano combattendo contro l’Isis solo per prendere il controllo di quello che avrebbe potuto essere da un secolo il Kurdistan.
In realtà molti analisti, come la giornalista specializzata Ariane Bonzon, fanno notare che se i curdi iracheni rappresentano una comunità piuttosto compatta, quelli in Siria, Turchia e Iran non sembrano candidati a una facile unificazione: le realtà tribali fanno spesso riferimento a dei capi locali, in Siria c’è una filiale del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (il Pkk che in Turchia resta al bando come entità terroristica, come pure figura sulla black list dell’Ue) che dialoga con il regime di Assad e un’altra estranea alla lotta armata. Per non parlare della Turchia, dove i curdi hanno deputati non solo dal Sud-Est, ma dalla ‘occidentale’ Smirne e da Istanbul. Lo stesso processo di pace tra il governo e il Pkk (che potrebbe essere rilanciato dal nuovo assetto politico ad Ankara e soprattutto dall’entrata in gran forze in parlamento del partito-filo-curdo Hdp) vede impegnato il fondatore del Pkk, Abdullah Ocalan, su posizioni non certo oltranziste e non legate alla rivendicazione di uno Stato curdo. “Penso che ci sia una tacita intesa tra Turchia e Stato Islamico contro i curdi e contro il regime di Assad, che resta la priorità della Turchia”, sostiene Kendal Nezan, presidente dell’Istituto curdo di Parigi, convinto che parte del patto silenzioso sia la desistenza dei miliziani jihadisti da ogni azione in territorio turco. Nezan ritiene improbabile che l’Occidente si schieri per uno stato curdo, anche se dalle conquiste contro i jihadisti dipendesse l’esito della lotta allo Stato islamico. Ma un processo di maggiore riconoscimento a livello internazionale è a questo punto irreversibile, secondo Ahmet Insel, analista turco, convinto che in ogni caso, proprio in ottica turca, “la prima parte del ventunesimo secolo sarà dei curdi”.