Una guerra commerciale aperta con la Cina metterebbe a repentaglio oltre 100 miliardi di dollari di esportazioni degli Stati Uniti: non è certo priva di rischi la strategia di dazi “monstre” declamata dal presidente eletto Donald Trump nei confronti del gigante asiatico. In pratica l’export americano verso la Cina – 116 miliardi di dollari nel 2015 e 79 miliardi nei primi nove mesi del 2016 – vale oltre un decimo del piano di stimoli e tagli alle tasse (1.000 miliardi di dollari) annunciato dall’imminente nuovo inquilino della casa Bianca. Ovviamente a rischiare maggiormente è il Paese del Centro, che lo scorso anno ha riversato beni per 483 miliardi di dollari sul mercato a stelle e strisce e altri 337 miliardi nei primi 9 mesi di 2016.
Tuttavia Pechino ha già fatto capire cosa si profila nel caso di uno scontro diretto. “Occhio per occhio”, e dente per dente, è lo scenario minacciosamente ventilato dal quotidiano Global Times, testata controllata dal regime comunista cinese, guidato del presidente xi Jinping con cui Trump ha avuto un primo scambio telefonico cui dovrà seguire un incontro “in una data vicina”. In pratica, Washington rischia di perdere almeno un dente per ogni 4 che potrebbe far saltare a Pechino. E il termine “almeno” è d’obbligo perché questo calcolo riguarda unicamente i dati grezzi del commercio con l’estero. Più insidioso, e difficile da quantificare, sarebbe il danno indiretto che subirebbero diversi colossi industriali e tecnologici americani, da Apple, a Hp, a Dell, ma la lista lunghissima e include anche case di moda come Gap o Victoria’s Secret. Perché a quel punto i cinesi potrebbero vendicarsi, ovviamente autodanneggiandosi, sulla produzione sfornata per conto di queste società, direttamente tramite filiali locali o indirettamente tramite committenti, come il gigante Foxconn.
La produzione delocalizzata in Cina dalle blue chip Usa è spesso cruciale per contenere i prezzi nella competizione globale e vendere in ogni mercato. Una guerra commerciale potrebbe diventare un boomerang che metterebbe a repentaglio la propria capacità di vendere in tutto il mondo. E questo sulla base dell’ipotesi, tutta da dimostrare, che poi si sarebbe in grado di riportare nei propri confini la produzione di beni che poi bisognerebbe vendere (senza sapere a che prezzi e dove). Magari potrebbe essere plausibile per alcuni beni ad elevato contenuto tecnologico, ma molto meno lo è su settori come il tessile. E con ogni probabilità gli Usa dovrebbero portare avanti una strategia simile isolati dai tradizionali alleati e partner europei. I primi scambi di Trump con le alte sfere Ue non sono stati esaltanti. Lui ha ignorato Bruxelles, innescando commenti piccati del presidente della Commissione Jean-Claude Juncker, il quale si è lamentato che si perderanno anni prima che il neo presidente inizi a capire come funziona il mondo e la stessa Ue. Guarda caso, sempre il Global Times ha fatto leva anche proprio su questo aspetto, quando ha insinuato che le commesse di aeromobili Boeing potrebbero semplicemente essere sostituite con Airbus.