Quanto costerà la “decarbonizzazione” dell’economia, chiesta a gran voce dei giovani che hanno scioperato a scuola e marciato per il clima in circa 1.700 manifestazioni in oltre 100 paesi del mondo? E chi pagherà quel costo? Sono domande a cui, ovviamente, non è possibile trovare una risposta precisa, anche perché molto dipende dallo “scenario” e dal calendario, più o meno ambiziosi, di riduzione delle emissioni a effetto serra che saranno attuati nei diversi paesi per realizzare le promesse e gli impegni dell’Accordo Onu sul clima firmato a Parigi il 12 dicembre 2015.
Se ci si limita all’Unione europea, delle stime indicative abbastanza significative delle risorse necessarie sono state inserite in due importanti documenti ufficiali della Commissione: il pacchetto su clima ed energia intitolato “Energia pulita per tutti gli europei”, varato il 30 novembre 2016, che introduceva la legislazione per realizzare gli obiettivi di riduzione dei gas serra entro il 2030; e la successiva “visione strategica di lungo termine”, pubblicata il 28 novembre 2018, che fissa al 2050 l’obiettivo di una economia a “zero emissioni nette” di carbonio. Attenzione, però: si tratta di spesa di investimenti, che si prevede producano effetti positivi sull’economia, e quindi non di costi netti. Inoltre, non vengono presi in conto i risparmi relativi alla mitigazione dei danni che inevitabilmente saranno causati dal cambiamento climatico (si pensi solo all’innalzamento del livello de mare, agli episodi meteorologici estremi e alla spesa sanitaria connessa all’inquinamento atmosferico).
Nel primo documento, il costo stimato degli investimenti necessari per conseguire l’obiettivo di riduzione delle emissioni del 40% entro il 2030, rispetto al livello del 1990, è di 177 miliardi di euro all’anno, a partire dal 2021 e fino al 2030. Questa spesa per investimenti, prevede la Commissione, potrà determinare un aumento del Pil dell’1% nel prossimo decennio, e la creazione di 900.000 nuovi posti di lavoro. L’Esecutivo Ue ricorda anche che solo nel 2015 le “energie pulite” hanno attratto un volume di investimenti pari a 300 miliardi di euro. Va ricordato che l’obiettivo del 2030 è stato successivamente reso più ambizioso da un accordo dell’Europarlamento col Consiglio Ue, che, aumentando gli obiettivi di aumento dell’efficienza energetica (dal 27% al 32%) e della parte coperta dalle fonti rinnovabili nel consumo energetico (dal 27% al 32,5%), dovrebbe comportare una riduzione più marcata delle emissioni (dal 40% al 45%). In più, il Parlamento europeo si è pronunciato a favore di uno sforzo ulteriore nella diminuzione dei gas serra, fissando l’obiettivo al 55%.
Nel secondo documento, la “Strategia di lungo termine”, la Commissione sostiene che “la modernizzazione e la decarbonizzazione dell’economia dell’Unione stimoleranno notevoli investimenti aggiuntivi”. Attualmente, si ricorda, “circa il 2% del Pil” dell’Ue “è investito nel sistema energetico e nelle relative infrastrutture”, ma “la cifra dovrebbe aumentare al 2,8% (circa 520-575 miliardi di euro l’anno) al fine di conseguire un’economia a zero emissioni nette di gas serra” nel 2050. Gli investimenti aggiuntivi fra il 2030 e il 2050 dovrebbero dunque attestarsi in una forchetta “tra i 175 e i 290 miliardi di euro l’anno”. E si tratta di cifre “in linea con la relazione speciale dell’Ipcc”, (Intergovernmental Panel on Climate Change) dell’Onu, che è il principale organismo scientifico internazionale per la valutazione dei cambiamenti climatici. Per l’Ipcc, “tra il 2016 e il 2035 saranno necessari investimenti nel sistema energetico pari a circa il 2,5% del Pil mondiale”.
Chi pagherà questi costi, pur considerando che si tratta di investimenti con un ritorno positivo per l’intera economia? La risposta della Commissione europea è molto articolata, ma comincia con un’affermazione netta: “La maggior parte degli investimenti sarà a carico delle imprese private e delle famiglie”. Alcune opzioni, tuttavia, “ad esempio una rapida trasformazione verso l’economia circolare e cambiamenti nei comportamenti” hanno il potenziale di “ridurre la necessità di investimenti aggiuntivi”, avverte l’Esecutivo comunitario, ricordando che “contemporaneamente, è possibile ottenere risparmi significativi in termini di spese sanitarie. Oggi l’inquinamento atmosferico nell’Ue causa gravi malattie e quasi mezzo milione di morti premature all’anno; le principali fonti di inquinamento sono costituite da combustibili fossili, processi industriali, agricoltura e rifiuti: si tratta di settori che rappresentano anche le principali fonti di gas a effetto serra”.
La transizione, entro il 2050 a un’economia a zero emissioni nette di gas a effetto serra, insieme all’attuazione delle misure esistenti in materia di inquinamento atmosferico, “ridurrà ogni anno di oltre il 40% le morti premature causate dal particolato fine e di circa 200 miliardi di euro i danni per la salute”, sottolinea la Commissione. Per stimolare gli investimenti privati, secondo Bruxelles “è essenziale che l’Unione europea e gli Stati membri inviino segnali chiari e a lungo termine che orientino gli investitori” verso “l’innovazione pulita nel modo più produttivo, offrendo una visione che indicherà dove far confluire i flussi finanziari e di capitale”. La Commissione ricorda che c’è già un forte sostegno finanziario pubblico europeo per gli investimenti a favore della transizione energetica e della lotta al cambiamento climatico. “L’ambiente, le risorse e l’efficienza energetica sono ambiti già in grande rilievo nel Piano di investimenti per l’Europa – il piano Juncker -, uno dei cui pilastri è il Fondo europeo per gli investimenti strategici (Feis), e nei fondi per la Politica di coesione, attraverso cui l’Unione eroga circa 70 miliardi di euro per l’attuazione della strategia dell’Unione dell’energia”. La nuova versione del Feis “si concentra ancor più sugli investimenti sostenibili in tutti i settori, per contribuire a conseguire gli obiettivi dell’accordo di Parigi e permettere la transizione a un’economia efficiente nell’uso delle risorse, circolare e a basse emissioni di carbonio”.
A questo dovrebbero essere dedicati “almeno il 40 % dei progetti” finanziati dal Fondo, e lo strumento finanziario che gli succederà, InvestEU, “rafforzerà questo obiettivo”. La Commissione europea ha proposto di destinare a questo tpo di progetti “almeno il 25% della spesa” del prossimo quadro finanziario pluriennale comunitario 2021-2027. In questo modo, “il bilancio dell’Unione continuerebbe a fungere da catalizzatore per stimolare investimenti pubblici e privati sostenibili e per indirizzare il sostegno dell’Ue alla transizione verso l’energia pulita là dove è più necessario”. Secondo l’Esecutivo comunitario, il settore finanziario privato avrà “un ruolo fondamentale per il sostegno della transizione”, riorientando i capitali verso investimenti più sostenibili sia attraverso la realizzazione di una “Unione dei mercati dei capitali ben funzionante”, che, al suo interno, con il “piano d’azione sulla finanza sostenibile”. Questo piano per la “finanza verde” poggerà su “un sistema di classificazione unico (tassonomia) delle attività economiche sostenibili”, su “indici di riferimento per investimenti a basse emissioni di carbonio”, e sugli “obblighi d’informativa più precisi per i prodotti d’investimento”, che “aumenteranno la trasparenza e aiuteranno a scegliere gli investimenti giusti”. Fra l’altro, “anche le autorità di vigilanza e le banche centrali, compresa la Banca centrale europea, possono svolgere un ruolo attivo in quest’azione di riorientamento”.
Altre forme di finanziamento degli investimenti potranno venire dalla tassazione ambientale, dai sistemi di fissazione del prezzo del carbonio (“borsa delle emissioni”) e dalla revisione graduale dei regimi di sovvenzioni ancora esistenti per i combustibili fossili, “in linea con gli impegni assunti dall’UE nel G20”. La tassazione ambientale dovrebbe essere diretta a promuovere l’aumento dell’efficienza energetica, la riduzione delle emissioni di gas serra e a realizzazione dell’economia circolare. In questo quadro, l’Unione e gli Stati membri dovranno anche adottare “un approccio comune per scongiurare i rischi di delocalizzazione”. Sarà necessario “trovare nuove fonti di finanziamento, ad esempio oneri derivanti da un’applicazione coerente del principio ‘chi inquina paga’”. Il clima è al centro del programma di ricerca e innovazione dell’Ue, Horizon Europa. La Commissione propone di investire negli obiettivi climatici il 35% del bilancio di quasi 100 miliardi di euro di questo programma attraverso lo sviluppo di soluzioni innovative a zero emissioni, in particolare nei settori “dell’elettrificazione (energie rinnovabili, reti intelligenti e batterie), idrogeno e celle a combustibile, stoccaggio dell’energia, trasformazione delle industrie ad alta intensità energetica in industrie neutre in carbonio, economia circolare, bioeconomia e intensificazione sostenibile dell’agricoltura e della silvicoltura”.
L’Esecutivo comunitario afferma che “nonostante la necessità di ingenti investimenti aggiuntivi in tutti i settori economici, le conseguenze di questa profonda trasformazione saranno nel complesso positive per l’economia europea, che ci si attende cresca più del doppio entro il 2050, rispetto ai livelli del 1990, anche con una piena decarbonizzazione”. In termini di aumento del Pil si prevede “un impatto da moderato a positivo”, con “benefici stimati fino al 2% entro il 2050 rispetto allo scenario di riferimento; è importante evidenziare – sottolinea la Commissione – che queste stime non includono i benefici derivanti dai danni evitati causati dai cambiamenti climatici e i relativi costi di adattamento”. La transizione, secondo il documento strategico della Commissione europea “stimolerà la crescita di nuovi settori: i ‘posti di lavoro verdi’ sono già 4 milioni nell’Ue, e ulteriori investimenti nella modernizzazione industriale, nella trasformazione dell’energia, nell’economia circolare, nella mobilità pulita, nelle infrastrutture ‘verdi’ e ‘blu’ e nella bioeconomia creeranno nuove opportunità occupazionali di qualità a livello locale”.
L’Esecutivo comunitario ricorda che “grazie alle azioni e alle politiche per attuare gli obiettivi dell’Unione in materia di clima ed energia per il 2020 la forza lavoro dell’Ue è già cresciuta di una percentuale compresa tra l’1% e l’1,5%, ed è una tendenza che continuerà”. I posti di lavoro, prevede la Commissione, “aumenteranno nell’edilizia, nell’agricoltura, nella silvicoltura e nelle energie rinnovabili”, ma per altri settori “la transizione può rivelarsi difficile: a risentirne sarebbero in particolare le regioni le cui economie dipendono da attività che dovranno affrontare un probabile declino, o sottoposte alla necessità di trasformarsi”, e poi “settori quali l’estrazione del carbone e la prospezione di petrolio e gas”. Inoltre, “settori ad alta intensità di energia come quelli dell’acciaio, del cemento, dei prodotti chimici, e anche quello dell’automobile, vedranno un passaggio a nuovi processi produttivi che richiedono nuove competenze”.
E “le regioni che dipendono economicamente da questi settori, molte delle quali si trovano nell’Europa centrale e orientale, spesso in Stati membri a basso reddito, saranno messe alla prova”, avverte la Commissione. Altri posti di lavoro esistenti “dovranno essere trasformati e adattati in funzione della nuova economia”, nota ancora l’Esecutivo comunitario, tenendo conto “della probabile contrazione e invecchiamento della forza lavoro nell’Unione e del numero in aumento di mansioni sostituite a causa dei cambiamenti tecnologici (che comprendono digitalizzazione e automazione)”. Le zone rurali, ad esempio, “dovranno mantenere una forza lavoro sufficientemente qualificata per soddisfare le crescenti e mutevoli esigenze del settore agricolo e di quello forestale, e al tempo stesso affrontare un calo della popolazione”. Per le piccole e medie imprese, infine, “la transizione rappresenta un’opportunità, ma crea anche problemi particolari, come l’accesso alle competenze e ai finanziamenti”, conclude la Commissione. askanews