Tusk – facendosi interprete soprattutto delle posizioni dei Paesi dell’Est – vede nel bisogno di sicurezza, nell’incapacità dell’Ue di governare la crisi dei rifugiati (almeno fino a quando non è riuscita a limitarne la portata, con il controverso accordo con la Turchia), così come nell’inadeguatezza dei controlli alle frontiere esterne, la vera ragione della crisi di legittimità delle istituzioni comunitarie. Confonde l’opposizione all’immigrazione che ha fatto vincere la Brexit nel Regno Unito – motivata dal risentimento verso gli immigrati “interni”, all’Ue, soprattutto polacchi e rumeni – con la paura dell’invasione degli immigrati e profughi “esterni”, soprattutto islamici, che è tanto diffusa nell’Europa centro-orientale. Juncker difende a spada tratta il “metodo comunitario”, che vede nella Commissione (e non nel Consiglio europeo) l’organismo centrale di proposta e di impulso, la forza propulsiva dell’avanzamento nell’integrazione europea; e denuncia l’incoerenza e la mancata solidarietà di tanti Stati membri, che ancora sono latitanti quando si tratta di attuare le decisioni prese insieme, che accusano Bruxelles per non doversi assumere le proprie responsabilità, e che si rifiutano di “ricollocare” a casa loro la propria parte di rifugiati per alleggerire l’onere che pesa sui paesi in prima linea, la Grecia e l’Italia.
Le divisioni sono fortissime anche fra gli Stati membri: sull’immigrazione l’Italia è con la Commissione e con la Germania, la Francia è più ambigua, i paesi dell’Est (almeno quelli del gruppo di Visegrad, Ungheria, Repubblica ceca, Slovacchia, Polonia) stanno dall’altra parte e non riconoscono gli obblighi della politica comune prevista dal Trattato Ue. Sull’economia, Juncker riconosce finalmente che il Patto di Stabilità, i vincoli di bilancio dell’Eurozona, vanno applicati con “flessibilità intelligente per non ostacolare o bloccare la crescita”, mentre per altri quei vincoli sono diventati “dogmi”, “dottrina”. E’ una posizione vicina a quella del “Club Med”, i paesi (comprese Italia e Francia) i cui leader si sono incontrati il 9 settembre ad Atene; e molto lontana dall’atteggiamento della Germania, che continua a negare l’evidenza dei danni che le politiche d’austerità hanno prodotto all’economia di gran parte dei paesi membri (ma non a quella tedesca), e delle lacerazioni e divergenze che hanno creato all’interno dell’Unione monetaria. Che non vede quanto la delegittimazione delle istituzioni europee agli occhi dei cittadini in tanti paesi membri, e l’ascesa dei movimenti populisti, sia proprio una conseguenza diretta delle sciagurate politiche d’austerità. Non è il caso neanche più di contare sul vecchio nucleo dei “paesi fondatori”, quelli dell’Europa dei Sei, con l’Olanda ormai sempre più ostile a spingere avanti l’integrazione e a trasferire nuovi poteri a Bruxelles, mentre si teme un successo elettorale dei populisti.
Quale visione unitaria, quali progetti comuni per il futuro possono venir fuori da questa disomogeneità di posizioni, di percezioni e di esigenze? Ingrippato ormai da tempo (almeno dall’inizio della crisi dell’Eurozona, nel 2010), è stato ridimensionato anche l’asse franco tedesco, che in altre epoche era riuscito spesso a ridare dinamicità al progetto europeo, a rilanciarlo durante le crisi, a indicare la rotta, sostenendo (e mai ostacolando) la Commissione europea. A Bratislava, Parigi e Berlino portano un documento congiunto, la Germania ha mostrato un’apertura sulla difesa comune, ma non si vedono grandi balzi in avanti. Il vertice di Bratislava, comunque, è una riunione informale: non dovrà decidere nulla, basterà che rimandi alcune nuove iniziative (la più promettente sembra proprio quella sulla difesa) al Consiglio europeo “ordinario” di dicembre, e forse riuscirà a evitare di manifestare in piena luce le divisioni. Basterà che si concentri su due temi. Da una parte, la necessità mantenere le promesse, e di attuare davvero ciò che è già stato deciso, in particolare (ma non solo) per quanto riguarda il rafforzamento dei controlli alle frontiere esterne. Dall’altra, l’atteggiamento verso il Regno Unito. Questa, oltretutto, sembra davvero l’unica questione su cui i Ventisette appaiono davvero uniti: attorno alla parola d’ordine di non cominciare i negoziati sulla Brexit, prima che Londra abbia notificato l’intenzione di lasciare l”Ue, attivando il famoso articolo 50 del Trattato di Lisbona (“no negotiation without notification”), e sul principio fondamentale secondo cui l’accesso al mercato unico europeo – a cui tanto tengono i britannici – è indivisibile dalla libertà di circolazione delle persone all’interno dello stesso mercato unico. Chi ha votato “leave” per chiudere le porte del Regno Unito agli immigrati “interni” dovrà farsene una ragione.