La sentenza del Tar di Lecce, che ha ha ordinato ad ArcelorMittal di spegnere entro due mesi gli impianti dell’area a caldo dell’ex Ilva di Taranto, rischia di essere la prima bomba sociale che il nuovo governo guidato da Mario Draghi è chiamato a disinnescare. La decisione dei giudici amministrativi, che hanno dato ragione al sindaco Rinaldo Melucci per la situazione di grave pericolo per la salute dei cittadini, potrebbe “far saltare immediatamente circa 5mila lavoratori” e, in breve tempo, portare alla “chiusura definitiva” dello stabilimento con l’ulteriore danno di trasformare Taranto in “una seconda Bagnoli”. Insomma, un “disastro” ambientale e sanitario. A lanciare l’allarme è il segretario generale della Uilm, Rocco Palombella, di Faggiano (TA), per oltre tre decenni delegato sindacale all’Ilva di Taranto.
“Non c’è pace per Taranto – dice Palombella ad askanews – i problemi non mancano mai. Il dispositivo è immediatamente esecutivo. Dunque, i 60 giorni indicati dal Tar sono il periodo che serve per mettere in sicurezza gli impianti e le persone”. ArcelorMittal ha intanto annunciato un ricorso al consiglio di Stato. “Il ricorso è il minimo – prosegue il leader della Uilm – ma da oggi iniziano le procedure per la chiusura dell’area a caldo. Entro due mesi bisognerà fermarsi definitivamente e, una volta fermato l’impianto, sarà finita. È una grana molto grossa, il Governo dovrà decidere cosa fare. Per ora non c’è stata una interlocuzione con il ministro dello Sviluppo economico (Giancarlo Giorgetti, ndr), che pare abbia parlato col sindaco di Taranto. Ancora nessuna telefonata”.
Nelle prossime ora ci sarà comunque un’iniziativa sindacale, annuncia, anche perché ci sono 1.600 lavoratori della vecchia Ilva che sono con “pochi spiccioli” di cassa integrazione cui si aggiungono “altri 3mila in Cig per Covid. In tutto, quasi 5mila persone che salterebbero immediatamente – avverte Palombella – la fabbrica senza l’acciaio non può funzionare”. In totale, a Taranto ci sono 8.200 lavoratori diretti più circa 5 del sistema degli appalti.
“Sindaco e presidente della Regione (Michele Emiliano, ndr) dicono che bisogna decarbonizzare, chiudere l’area a caldo e produrre solo con i forni elettrici – aggiunge – il piano di ArcelorMittal e Invitalia prevede la costruzione di un forno elettrico, ma per poter funzionare ha bisogno di circa due anni e mezzo per poter essere installato. Un accordo di programma, come fatto a Genova o Trieste, cioè chiudere completamente l’area a caldo, è una bufala. A Genova fu chiusa perché l’acciaio lo prendevano da Taranto, quindi dalla stessa società. Genova rilavora l’acciaio prodotto da Taranto. Far vivere il sito di Taranto con l’area a freddo significa chiuderlo definitivamente.
Infatti, s’interrompe la produzione perché non si avrà più la possibilità di avere l’acciaio. È dunque una bugia parlare di riconversione, fare come Genova. Se chiudiamo l’area a caldo è bene dire che chiudiamo lo stabilimento, perché quasi tutti gli impianti che lavorano sono quelli a caldo. Bisogna a quel punto decidere di fare un’altra cosa: cancellare definitivamente in Italia la produzione di acciaio da ciclo integrale”.
La soluzione, secondo Palombella, è “un equilibrio tra la produzione di acciaio da ciclo integrale e la realizzazione del forno elettrico. Ma per fare questo c’è bisogno di tempo. E’ il progetto che l’azienda ci aveva presentato un mese fa, che però avevamo contestato per gli esuberi che si determinavano. Il forno elettrico naturalmente riduce il numero dei lavoratori. Lo avevamo contestato più per l’impatto occupazionale che per la progettualità”.