Lo odiavano, Giovanni Falcone. Lo odiavano in tanti, non solo i mafiosi. Lo odiavano perché non considerava la politica il “legno storto” che la magistratura doveva raddrizzare; perché pensava che la cultura del sospetto fosse non l’”anticamera della verità” ma “del khomeinismo”; perché le parole dei pentiti le sapeva “pesare”. Lo odiavano perché era un sincero garantista e dubitava del “concorso esterno in associazione mafiosa”. Lo odiavano, insomma, perché non era come loro. Quando si commemora l’anniversario della morte di un eroe, com’è avvenuto ieri con la “Nave della Legalità”, le parole altisonanti e quelle più sincere, la presenza di persone perbene e di quelle indesiderate, non bisogna mai dimenticare che a odiarlo furono molti suoi colleghi magistrati, tanti politici, vari giornalisti, soprattutto in quella sinistra che dopo la sua morte seppe strumentalizzarne l’immagine.
Ogni 23 maggio, giorno della strage di Capaci che pose fine alla vita di Falcone, della moglie Francesca Morvillo e dei tre agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, molti di coloro che si stracciano le vesti urlando che mai e poi mai dimenticheranno il tributo di Falcone nella lotta alla mafia, provano a far dimenticare la loro granitica avversione verso il magistrato. E anche se tenteranno di spacciarsi per “eredi morali” di Falcone, la storia li piazzerà sempre in ultima fila. Almeno finché la verità storica non verrà ripristinata. E la verità è che Falcone non lo odiava solo Giovanni Brusca, il mafioso che lo fece saltare in aria. Nel gennaio del 1988 Falcone doveva diventare consigliere istruttore di Palermo, ma il Csm scelse Antonino Meli. In quell’istante inizia la sua delegittimazione, che s’impenna quando nel 1989 il pentito Giuseppe Pellegriti accusa Salvo Lima di essere il mandante di alcuni delitti. Falcone intuisce che è una balla e lo incrimina per calunnia. Il primo a scagliarsi contro il magistrato è il sindaco di Palermo Leoluca Orlando, che accusa Falcone di nascondere i documenti sui delitti eccellenti in un armadio.
Per quelle accuse, sostenute anche dal pidiessino Luciano Violante, Falcone viene “processato” dal Csm. Ma la virale delegittimazione era emersa anche dopo il fallito attentato all’Addaura, il 20 luglio 1989. I seguaci di Orlando, come dirà il politico comunista Gerardo Chiaromonte, accusano Falcone di esserselo fatto da solo. Falcone è “accerchiato” e accetta di andare a dirigere gli Affari penali al ministero della Giustizia guidato da Claudio Martelli. L’intenzione è quella di creare la Superprocura antimafia. Parte l’”assalto alla gola”. Su Repubblica Sandro Viola definisce Falcone “un guitto televisivo” pieno di vanità, mentre Alessandro Pizzorusso, membro del Csm in quota Pds, annota sull’Unità: «Falcone superprocuratore? Non può farlo». Alcune toghe, fra cui Armando Spataro, gli rimproverano di farsi vedere in pubblico col ministro. Dopo la sua morte, comincia la più perfida delle strumentalizzazioni. La stagione di Mani Pulite è appena iniziata e Repubblica definisce Antonio Di Pietro «il Falcone del Nord». Il 26 maggio 1992 nel palazzo di Giustizia di Milano, Ilda Boccassini dirà ai suoi colleghi: «Avete fatto morire Falcone con la vostra indifferenza (…). Le parole più gentili per Giovanni, soprattutto da sinistra e da Magistratura democratica, erano di essersi venduto al potere. C’è tra voi chi diceva che le bombe all’ Addaura le aveva messe Giovanni o chi per lui. Ditelo adesso e voltiamo pagina». Non si alzò nessuno. (Il Tempo)