di Maurizio Balistreri
Una Federal Reserve divisa i due schieramenti, quello secondo cui un rialzo dei tassi sarà “presto” necessario e quello che invece preferisce aspettare una ripresa dell’inflazione prima di stringere la cinghia. E’ questa la fotografia della banca centrale americana che emerge dai verbali del meeting del 26 e 27 luglio scorsi, quando il costo del denaro fu lasciato per la quinta volta di fila allo 0,25-0,5% (l’ultima stretta risale al dicembre 2015; quella fu la prima dal 2006). In quell’occasione la Fed non aveva discusso soltanto di tassi ma anche delle incertezze legate alla Brexit, che ormai faceva meno paura, e delle banche europee e italiane messe sotto pressione non solo in Borsa ma anche dai loro crediti deteriorati. Nonostante le divisioni, i vari componenti del Federal Open Market Committee – il braccio di politica monetaria della Fed – si trovarono d’accordo su un punto: prima di un aumento del costo del denaro “era prudente raccogliere più dati per capire l’andamento sottostante dell’attività economica e del mercato del lavoro”. A questo proposito i vari governatori decisero che era giusto “continuare a monitorare da vicino gli indicatori dell’inflazione e gli sviluppi economici e finanziari globali”.
Questo, nonostante “i rischi di breve termine associati alla Brexit siano diminuiti”. D’altra parte, si legge nel documento, “restano alcuni rischi globali di lungo termine legati” al referendum britannico del 23 giugno scorso, quando vinse chi voleva l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea. Le attese dell’istituto centrale guidato da Janet Yellen restano dunque le stesse, nonostante lo scorso mese ci sia stato chi voleva un rialzo dei tassi in quell’occasione: l’Fomc si aspetta che “le condizioni economiche evolveranno in modo tale che soltanto un rialzo graduale dei tassi sarà necessario” e che il costo del denaro “resterà probabilmente per un po’ sotto i livelli che ci si aspetta prevalgano nel lungo termine”. Insomma, l’approccio della Fed rimane legato ai dati, che se continuano a indicare un lento ma costante miglioramento dell’economia porteranno a un rialzo dei tassi. Su questo, i membri dell’Fomc il mese scorso hanno voluto lasciare aperta ogni opzione. Peccato che, come al solito, non venga fornita una tempistica precisa anche se settembre inizia a essere considerato il momento possibile per un rialzo dei tassi proprio come suggerito ieri da William Dudley (Federal Reserve di New York) e di Dennis Lockhart (Fed di Atlanta).
Di certo, rispetto alla riunione di giugno, quella di luglio è finita con “due incertezze che si sono alleviate”: la Brexit sembrava destinata ad avere un effetto “limitato” sulle prospettive dell’economia Usa nel breve termine; un forte rallentamento dell’occupazione e dell’attività economica “non era in corso” dopo lo spauracchio dato dal rapporto sull’occupazione americana di maggio che aveva ampiamente deluso (da allora c’è stata una netta ripresa). Quanto alle banche europee, i verbali della Fed spiegano che “mentre i capitali e la liquidità delle banche Usa resta forte, le banche europee – in particolare quelle italiane – erano sotto pressione come dimostrato dal forte declino delle loro azioni”, colpa anche delle “preoccupazioni sulla qualità del loro portafoglio di prestiti”. La loro performance in Borsa è stata peggiore, recitano le cosiddette minute, “riflesso della paura degli investitori che tassi bassi continueranno a pesare sulla redditività”. Il riferimento è a quelli negativi imposti dalla Banca centrale europea sui depositi degli istituti di credito presso le casse dell’Eurotower stessa. Una misura che, ha osservato recentemente il Fondo monetario internazionale, ha una sua logica ma ha anche dei limiti motivo per cui la banca centrale di Mario Draghi “potrebbe avere bisogno in futuro di dipendere di più dall’acquisto di asset”, ossia di bond, evitando di portare in ulteriore territorio negativo quei tassi. Almeno questa è l’opinione dell’Fmi.