SONDAGGI E CONSIDERAZIONI “Secondo vari sondaggi, oltre l’80 per cento dei giapponesi pensa alla Cina come una minaccia”. In questo senso, anche il recente riavvicinamento di Tokyo e Pechino, iniziato a novembre 2014 con un accordo in quattro punti e rappresentato dalla stretta di mano tra il premier giapponese Shinzo Abe e il presidente cinese Xi Jinping al vertice Apec di Pechino e dalla ripresa la scorsa settimana del dialogo sulla sicurezza tra i due paesi dopo due anni e mezzo di sospensione, è poco. “Dobbiamo ammettere che la prospettiva di un reale miglioramento delle relazioni tra Giappone e Cina è ancora vaga”, ha affermato Kamiya. “Finché non cambia la crescente assertività cinese – ha proseguito – non cambia, non può cambiare il rapporto tra la Cina e i paesi vicini”. Diversa la valutazione data da Franco Mazzei, professore emerito all’Università degli Sudi di Napoli “l’Orientale” e docente di studi asiatici alla Luiss di Roma, il quale ha sottolineato la diversa natura culturale dei due giganti asiatici: la Cina caratterizzata da un universalismo da grande impero storicamente al centro del mondo, il Giappone da un particolarismo tipico della sua insularità. Questo ha fatto sì che, durante la modernizzazione, il Giappone sia stato avvantaggiato. Ma, con la globalizzazione, “il particolarismo rappresenta un ostacolo, mentre l’universalismo permette alla Cina di sguazzare”. Eppure anche la Cina ha rischi da affrontare: Tra questi la cosiddetta “trappola del reddito medio”: con i redditi “a 4-5mila dollari pro capite, Pechino dovrà ripensare il suo modello economico, perché il costo del lavoro diventa poco competitivo con altri vicini, e la Cina dovrà cercare di trasformare la sua economia da estensiva a intensiva”. In questo contesto, secondo Mazzei, è auspicabile che i decision-maker dei due paesi facciano una riflessione su un passo che permetta una più serena convivenza, sull’esempio di quello fatto dall’Europa dopo il secondo conflitto mondiale che ha portato all’Unione europea. La seconda minaccia per il Giappone è la Corea del Nord.
DUBBI “La Corea del Nord – ha spiegato Kamiya – è debole, non è in grado di apportare cambiamenti all’ordine internazionale. Tuttavia Pyongyang ha la capacità di costruire armi nucleari e missili balistici: questo potrebbe destabilizzare l’Asia-Pacifico”. I colloqui a sei, secondo lo studioso nipponico, non hanno chance di arrivare a un risultato, finché Pyongyang continuerà a violare le regole, è “futile” mostrarle buona volontà. Invece, secondo Kamiya, la dissuasione ha avuto dei buoni risultati interdittivi. A queste minacce regionali, Abe sta rispondendo con un cambiamento di approccio ai temi della sicurezza, che in Giappone viene definito dal governo “contributo pro-attivo alla pace”, che è stato definito dagli avversari come un nazionalismo spinto. Ma Tokyo – ha puntualizzato Kamiya – ha una classe di intellettuali, un’opinione pubblica, che già in passato ha fermato le pulsioni nazionalistiche o le ha ammorbidite. Altrettanto – a suo parere – non si può dire per i vicini: la Cina, in particolare, ma anche la Corea del Sud. La dottrina di sicurezza di Abe prevede una maggiore enfasi sulla forza militare. “Dalla prima guerra del Golfo, quando il Giappone diede solo denaro, la situazione è molto cambiata. Per la pace bisogna agire, e questo è diventato sentore comune in Giappone”, ha affermato l’accademico. “Il Giappone – ha proseguito – ha capito che, per la preservazione della pace, è necessaria anche la forza militare”. Ma questa considerazione – secondo Kamiya – non rende Abe un militarista: la sua politica può essere interperetata come “il suo sforzo per migliorare la natura del pacifismo del Giappone” in modo da includere anche l’uso della potenza militare per preservare la pace.
(foto, primo ministro giapponese, Shinzo Abe (sx) e presidente Cina Xi Jinping)