Giappone e Italia, due realtà a confronto

di Giuseppe Novelli

In due giorni, il Giappone ha ottenuto due premi Nobel: il primo ieri per la medicina con Satoshi Omura e il secondo oggi per la fisica con Takaaki Kajita. In realtà, proprio nell’analisi dei fondamenti della materia, i nipponici negli ultimi due anni l’hanno fatta da padroni. Lo scorso anno vinsero tre scienziati giapponesi, anche se uno dei quali ha passaporto Usa. Invece il paese che ha dato al mondo Enrico Fermi, Guglielmo Marconi, Giulio Natta e Rita Levi Montalcini, da quasi un trentennio raccoglie solo briciole. In realtà, anche il Sol levante non è che faccia incetta di premi. In tutto i nipponici – con passaporto giapponese – ne hanno ottenuto 24, compresi quelli per la letteratura. Quattro in più dell’Italia, che ha una popolazione pari a poco più della metà del Giappone. Molto meno della Germania, che ha 70 milioni di abitanti rispetto ai 110 milioni del Sol levante, e ha ricevuto più di 100 Nobel. La spiegazione di questa sottorappresentazione nipponica è stata parzialmente data da uno dei fisici che hanno vinto il Nobel lo scorso anno. “Il sistema degli esami giapponese è davvero cattivo. E Cina, Giappone e Corea sono tutti uguali. Per tutti gli studenti di scuola superiore, il loro obiettivo educativo è entrare in un’università famosa. Io penso che il sistema educativo asiatico sia una perdita di tempo. I giovani dovrebbero studiare cose diverse”, ha spiegato lo scienziato (naturalizzato americano).

Un problema insomma legato al sistema scolastico. Il governo di Shinzo Abe è consapevole della questione, e sta cercando di affrontarla in una maniera che probabilmente neanche Nakamura condividerebbe: riorganizzando i dipartimenti universitari a spese delle facoltà umanistiche. L’obiettivo è focalizzarsi sugli studi STEM (Science, Technology, Engineering and Math). In realtà, c’è un altro elemento che viene spesso sottovalutato: quello dell’accelerazione. Se era chiaro fino al 2000 che pochi giapponesi ottenevano i Nobel, in particolare quelli in materie scientifiche, ciò non è più tanto vero con il nuovo millennio. Dei 24 Nobel nipponici, 16 sono arrivati dal 2001 a oggi e sono tutti nelle discipline scientifiche. La realtà è che spesso i Nobel vengono assegnati per ricerche fatte molti anni prima. Kajita, per esempio, ha ottenuto i suoi risultati a cavallo dell’inizio del nuovo secolo. Quindi i premi ottenuti non sono necessariamente un buon indicatore su cosa accade nella ricerca scientifica di un paese. Oggi Tokyo raccoglie quello che è stato seminato negli anni del boom (o meglio della “bolla”, come direbbe un giapponese). Per esempio, l’Italia ha ottenuto negli anni 2000 solo due Nobel, se consideriamo Mario Capecchi e Roberto Giacconi italiani (sono in realtà cittadini Usa). Di certo, comunque, un nesso evidente esiste tra gli investimenti per la ricerca e lo sviluppo e il numero di Nobel ottenuti. La ricerca italiana – secondo quanto ha rilevato l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico – riceve dal 2000 in investimenti costantemente attorno all’1 per cento del Pil. L’ultimo dato nel 2013 parla dell’1,25 per cento. Molto, molto meno, per esempio, degli Stati uniti che, dal 2000, stanno costantemente sopra al 2,6 per cento del Pil (nel 2013 2,72 per cento). Il Giappone invece spendeva in ricerca e sviluppo il 3 per cento del Pil nel 2000, nel 2013 è arrivato al 3,47 per cento. La differenza è soprattutto lì.

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